Alessandro Buglione di Monale

Loreto Giovannone continua la sua analisi critica di Alessandro Buglione di Monale

In Sicilia, il cuneese di Monale trovò l’astigiano Govone, mentre era in atto la introduzione forzosa della leva militare obbligatoria di 8 anni e l’arruolamento in forze. Obbligo di leva seguito immediatamente da ribellione alla imposta disciplina militare con la diffusa renitenza alla stessa e numerose diserzioni. Una rete capillare con a capo il ministero dell’Interno, prefetti e sindaci permise di compilare le liste riunite di ricercati, disertori e renitenti alla leva. Liste usate dai reparti militari comandati da Govone impegnate nella feroce caccia a disertori e renitenti nelle loro case e nelle famiglie con aggressioni e torture. Noti alle cronache processuali due episodi dei reparti militari comandati da Giuseppe Govone: la “tortura dei bottoni” ardenti del sordomuto Antonio Cappello, e l’uccisione dei tre arsi vivi a Petralia Soprana.

Gli invasori si mossero con l’unanime e decisiva logica della guerra di “colonizzazione”. Fu l’annientamento degli oppositori trattati come nemici, inferiori. Cruenti furono i trattamenti alle popolazioni civili che si opponevano.

I militari appartenenti alle forze d’invasione oscillarono tra omicidi plurimi e stragi «Per quanto la cosa possa apparire paradossale, si dà in concreto il caso di una strage se e quando si tratta di un evento i cui responsabili per varie ragioni (da riferire comunque ad una vocazione pubblica, cioè non personale e privata, delle loro intenzioni e del loro comportamento sono persone o soggetti collettivi che sarebbe sbagliato, e fortemente riduttivo chiamare semplicemente “assassini”. Massacratori, se si vuole; o se si preferisce, carnefici; non però puri e semplici assassini. Com’è ovvio, lo specifico carattere delle loro responsabilità nei fatti [occupando una carica pubblica o comando militare], non ne riduce la sostanza criminale, ma ne dilata il senso degli effetti. In ogni caso, è raro che questi speciali tipi di “assassini”, al contrario degli autori dei normali omicidi, [non si ritengono] colpevoli di aver compiuto un misfatto, tanto più se il misfatto è talmente smisurato da riuscire mistificabile con un immenso “progetto” di portata storica… Il 16 novembre cessa lo stato d’assedio, ma la città [Palermo] non è per niente pacificata. Il regio commissario Alessandro Di Monale – il terzo in pochi mesi – ne dava l’annuncio in un manifesto dove diceva «io rimango rivestito ancora di ampi poteri politici e ne sono lieto». Il commissario lavorava tutto il giorno circondato da giovani che aveva portato con sé da Torino, e non tutti i siciliani disapprovavano i suoi metodi. C’era chi si sentiva rassicurato (Giuseppe Carlo Marino, La Sicilia delle stragi, 2015).

L’ordine pubblico imposto dagli invasori. Il 2 ottobre fu pubblicato un proclama del gen. Brignone che vietava di portare armi, minacciando misure estreme, cui fece seguito una circolare di Giuseppe Govone per il “disarmo della Sicilia” … Nella tarda primavera del 1863 Monale venne allontanato e per Govone fu un duro colpo; cominciò a sentire il governo e la politica come qualcosa di distante, farraginoso e insensibile [non più appoggiato, coperto per le efferatezze commesse]. Ma il documento che ci aiuta a capire lo spirito di questi provvedimenti è il proclama del 6 ottobre del commissario straordinario di Monale. Più che regolare dei comportamenti, sembrava dettare un quadro morale e intervenire su un generale atteggiamento, o cultura, che i siciliani avevano, o si supponeva avessero

(Marco Scardigli, Lo scrittoio del generale, UTET 2006, pag. 398-402)

Al proclama fecero seguito le seguenti disposizioni che spronavano le autorità locali a formulare gli elenchi di oziosi, vagabondi [usanza mutuata dal regno di Sardegna] e sospetti che riportavano condanne nei tribunali mandamentali: Consta il sottoscritto che in molti luoghi di queste Provincie non è osservata la legge di P. S. nella parte che riguarda gli oziosi, i vagabondi e le persone sospette. Gli consta del pari che dal Pubblico Ministero e dai Giudici di Mandamento non si dà esecuzione al disposto degli art. 131 e 132 della stessa legge. Urgendo che in ogni Comune si proceda rispetto a detta classe di persone con tutto il rigore della legge, il sottoscritto invita il sig. Prefetto a dare all’uopo le occorrenti disposizioni e con tutta quella sollecitudine che l’importanza dell’argomento richiede. É più che mai opportuno il momento per procedere a questa bisogna; ristabilito il principio d’autorità le Amministrazioni Comunali trovansi meglio in grado di agire senza timori, e la presenza delle truppe disseminate per ogni dove infonderà nei timidi il coraggio necessario. Oltreché le truppe stesse per la pratica acquistata nei paesi potranno anche per questo rispetto rendere utili servigi, e ad ogni modo col mezzo dei comandanti di esse si condurranno gli ordini da emanarsi e si potranno eccitare ed anche colpire coi mezzi che la legge accorda. Il sottoscritto impertanto ha fiducia che entro lieve termine li Prefetti saranno in grado di accertarlo dell’assoluto eseguimento delle summentovate disposizioni di legge. Per ciò che riguarda li citati art. 131 e 132 il sottoscritto rivolge gli opportuni eccitamenti alli Procuratori Generali presso le corti di Appello. Si trasmette la presente tanto alli sig. Prefetti che ai Sotto Prefetti, e se ne aspetta un cenno di ricevuta con indicazioni di quanto si sarà fatto da ognuno. Ma li Sotto Prefetti trasmetteranno tale cenno nella via gerarchica. (Archivio di Stato di Catania).

Il 2 novembre 1862 Rattazzi comunica al Prefetto di Palermo: Sarà impossibile conservare lo stato d’assedio, oltre il giorno della riapertura del Parlamento… vorrebbe ella restare a Palermo nella semplice qualità di Prefetto?

Loreto Giovannone

Fine seconda e ultima puntata

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Articolo pubblicato il 30/01/2018