La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

La «Parlata furbesca» della malavita torinese, nel 1924

Riprendiamo a parlare di Torino noir riportando questo articolo dal titolo “Parlata furbesca”, pubblicato su La Stampa del 16 aprile 1924, a firma U.P., cioè Ugo Pavia, prestigioso e autorevole cronista del giornale torinese, non ancora grande regista segreto dell’incredibile vicenda dello “Smemorato di Collegno” che sarebbe scoppiata nel 1927.

L’articolo è interessante non tanto per le espressioni gergali riferite – già note nei vari vocaboli dedicati al linguaggio della malavita torinese che si sono succeduti nel tempo (vedi Bibliografia finale) – ma piuttosto per gli ambienti malavitosi che Ugo Pavia evoca con la soddisfazione di vederli ormai distrutti grazie all’azione di quello che era detto “piccone risanatore”. Pavia evoca parecchie località torinesi malfamate, alcune già da noi considerate in precedenti articoli, come il Chiabotto delle Merle e via Stampatori, mentre altre ancora meritano una adeguata ricognizione. Nella trascrizione del testo abbiamo impiegato la grafia piemontese normalizzata al posto di quella virigliana usata da Pavia.

 

Parlata furbesca

Come nacque il «gergo» nella malavita è noto. Gente messasi fuori della legge ed in continua ed aspra lotta colla Polizia, aveva assoluta necessità di crearsi un linguaggio incomprensibile per gli altri e che permettesse loro di comunicarsi notizie od ordini i quali, anche se raccolti da orecchi estranei, non potessero essere capiti. Il gergo nato nelle galere, nei reclusori, nei penitenziari in genere, fu un bisogno pei condannai che temevano le indiscrezioni delle guardie preposte alla loro sorveglianza. Molte frasi sono le stesse per i delinquenti di tutti i paesi: ciò che fa ritenere il gergo un linguaggio per la maggior parte... internazionale.

Penetrare questo mistero fu, quindi, uno dei più ardui compiti che si prefissero i funzionari di P. S. e molti ve ne furono, alcuni anche attualmente in servizio alla nostra Questura, i quali nei loro giornalieri contatti colla malavita riuscirono non solo ad intenderlo ma anche a parlarlo. Il funzionario che durante un interrogatorio sapeva far sfoggio di questa strana cultura diventava per l’arrestato un uomo da prendersi in... molta considerazione: esercitava su di esso un ascendente speciale e riusciva il più delle volte ad ottenere ciò che altri non avrebbe conseguito mai, cioè la confessione di un reato o la rivelazione di complici.

Ma il continuo migliorarsi della società ha mutato e di molto la figura del delinquente. Esso ha lasciata quasi completamente la nota esteriore spoglia del barabba per mutarsi nel giovano elegante viveurs; anziché frequentare la sudicia e affumicata «gargotte», va pei caffè e gli alberghi di lusso, ed in oggi assai raramente i reati sono frutto della cooperazione di molte persone: in quest’epoca è il... lavoro individuale che trionfa. In queste condizioni il «gergo» ha perduto il novanta per cento della sua funzione. Non così quando la malavita conduceva un’esistenza nettamente separata dal resto della società. Ancor dieci o quindici anni addietro a Torino vi erano località che nulla avevano da invidiare alla famosa Corte dei Miracoli di Parigi. Chi non ricorda al Ciabòt dle merle, in regione Aurora, un agglomeramento di sudicie casupole, riunite a quella delle Cà nèire in vicinanza del Rondò dIa forca (fra corso Valdocco e via Cigna) o del borg del fum (vecchia Vanchiglietta), La cascina del brigant, in via Cottolengo, e più centrale di tutte la via Stampatori?

Quest’ultima godeva in quel tempo una ben triste fama: la Polizia vi manteneva giorno e notte pattuglie di guardie ma ciò non bastava ad impedire che troppo spesso avvenissero fatti di sangue originati dalla divisione del bottino. Ad un tratto qualcuno della comitiva scattava a gridare col coltello alla mano, per appoggiare di proprio diritto: «A l’han incapuciame», (ciò che in parlar furbesco voleva dire, sono stato ingannato) e la zuffa si scatenava furibonda. Ma il pandemonio cessava d’un tratto quando una voce gridava, di sull’uscio: fieui a j’è la vòla (la pattuglia della squadra mobile), quando le pole (le guardie) facevano irruzione ben di rado riuscivano a trovarvi qualcuno. Per opera di quale magia erano scomparsi i malviventi?

Dalle molte locande, delle osterie, dai bocion, che... abbellivano la strada malfamata, gli speciali clienti potevano ad ogni allarme scendere in cantina e poiché tutte le cantine comunicavano fra loro e formavamo una rete sotterranea inestricabile, sfuggire alla polizia. In questi locali quartier-generale della malavita non si parlava che il gergo. Qui venivamo a combinare ‘l travai (i furti), le dure (le rapine), in tal modo chiamate per indicare il sistema violento, od altri reati del genere. Se ad un poliziotto travestito prendeva il vezzo di introdursi in quel pericoloso ambiente vi era da giurare che egli veniva subito riconosciuto.

- An gamba ch’a j’è ‘n tira - mormorava qualcuno. E la frase di bocca in bocca veniva-appresa da tutti. Si sapeva così della presenza di uno spione ed i discorsi che si susseguivano erano di un’onestà... veramente eccezionale per simili bocche.

Ciò che appare addirittura paradossale è che questo gergo creato da delinquenti, questo linguaggio furbesco che ha le sue origini nelle prigioni (le boiose) è permeato talvolta da uno strano senso di moralità. Proprio cosi: l’affigliato della mala vita (‘l drit) chiamar giusta l’autorità in genere: i giudici il tribunale ecc., dice che è bel un individuo che mai abbia avuto a che fare colla Polizia e brut colui che fu più volte condannato; A l’ha pagà quello che ha espiato una pena ; A l’è ‘n disgrassia dla giusta, il ricercato dalla Polizia, a l’an daie la neuia allo scarcerato sottoposto alla vigilanza, infatti più seccatura di quella di dover essere sempre reperibile notte e giorno è difficile trovare.

Vi sono poi parole di non facile comprensione: a l’à ‘l micon si dice del sorvegliato che incorso in altri reati è sottoposto alla ammonizione. Forse la derivazione di questa parola sta nell’assonanza fonetica che passa tra ammonizione e munission, pagnotta dei soldati, o pan da supa come anche volgarmente lo chiamano. Balord è per questa gente il biglietto di banca falso, il denaro è ‘l gran; il biglietto da mille è designato un còrp, quello da cento na gamba, e da cinquanta la mesa gamba. Come si vede anche l’anatomia è stata sfruttata a beneficio del gergo. L’arrestato per misure di P. S. l’han pialo d’ bel, ma se l’arresto è motivato, allora l’han falo, se confessa l’è andait giù; se poi lo convincono di associazione a delinquere, in quel caso l’è carià ‘d na sòma (l’imputazione di associazione aumenta di molto la pena ed è quindi un basto pesante pel delinquente) ed infine quando dalla camera di sicurezza dove ha dormito sul bigliard (il tavolaccio) lo passano alle carceri, i suoi compagni dicono: L’han traversalo.

Parlare il gergo dei malviventi è gerbolé; il ladro è sempre un ciapor (e come no), e il borsaiuolo na forciolin-a. In questa parola sta forse tutta la delicatezza che deve usare il borsaiuolo per compiere destramente il suo non facile... lavoro. La refurtiva è l’arponcia (chissà come c’entra l’arpa in tutto ciò) ed il ricettatore è il pacisfor; i ferri del... mestiere sono i tòni ma l’individuo da trassé, (da ingannare), la vittima insomma, e sempre un Vincens. Forse lo chiamano così pensando alla esemplare bontà di S. Vincenzo che tutto dava al prossimo e nulla serbava per sé. Vi è sempre una differenza fra colui che dona e quello che si lascia spogliare, ma in entrambi i casi, secondo il punto di vista del malvivente, si tratta di vera e propria dabbenaggine.

Come si rileva dalle parole riportate, che sono un... campionario soltanto in confronto alle tante che compongono il vocabolario di questa... lingua eccezionale, il gergo appare ricco di colore e di espressione, qualche volta anche pervaso da una punta di umorismo e qualche altra da un senso di dolce poesia. Ad esempio: I vado ‘n tla mia nivola per dire «Vado nella mia soffitta» è una frase immaginosa e bella. Il paragone è appropriato. La soffitta, il... maniero della miseria, sta in alto, troneggia su un mare di tegole e di comignoli e, vista dalla strada, sembra confondersi col cielo: appunto come una nuvola!

Il gergo si trova ora nella sua parabola discendente, ma non è certo il caso di rammaricarsi pensando che anch’esso, come tante altre cose, scomparirà completamente. Alla sua fine ha lavorato più che la Polizia, i giudici e le leggi, il piccone. Gli sventramenti, operati nei quartieri occupati dalla malavita, hanno tolto agli affigliati la possibilità di unirsi in numerose combriccole per ordire reati in comune a danno della proprietà, e quindi del conversare in gergo è venuta a mancare l’occasione. Questo fra breve rimarrà solamente un triste privilegio del carcere.

U. P.

(La Stampa, mercoledì 16 aprile 1924)

 

A commento della lettura del gradevole articolo si può constatare che Ugo Pavia parla del “piccone risanatore” come se questo avesse ormai concluso il suo lavoro a Torino mentre rimaneva ancora la questione di via Roma “vecchia” per la quale, almeno nel tratto tra piazza Castello e piazza San Carlo, non mancavano preoccupazioni destate dalla malavita oltre a quelle di natura igienico-sanitaria.

E dei luoghi della mala torinese evocati da Pavia torneremo a parlare in successivi articoli.

Bibliografia

Pcit vôcabôlari dla mala, Piemonte in bancarella, Torino, 1971.

Vocabolari dla mala, a cura di Enrico Gianeri, tavole di Camillo, Piemonte in bancarella, Torino, 1972.

Enrico Gianeri, Vôcabôlari dla mala, tavole di Camillo, Piemonte in bancarella, Torino, 1989.

Vocabolari dla mala e dij giramond, a cura di Giuseppe Goria, tavole di Camillo, Il punto, Torino, 2007.

Riccardo Renato Grazzi, Gergolada. Modi di dire nella Torino del 19.-20. Secolo, Graphot, Torino, 2009.

 

Immagini tratte da Vocabolari dla mala, a cura di Enrico Gianeri, tavole di Camillo, Piemonte in bancarella, Torino, 1972 (Fonte: Ebay).

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Articolo pubblicato il 01/03/2020