La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Il delitto di Pasqua 1972

Nell’anno 1972 la Pasqua ricorre domenica 2 aprile. A Torino, il 4 aprile, quando i giornali ritornano in edicola, la cronaca cittadina riporta il “delitto di Pasqua”.

«La Stampa» del tempo annovera una squadra di valorosi cronisti della vecchia scuola che sanno presentare adeguatamente ai lettori questo caso fin da occhiello, titolo e sommario: «Delitto nel pomeriggio di Pasqua in una casa di borgo San Paolo - Uccisa e sfigurata nell’ufficio della sua ditta / Il magazziniere interrogato come testimone - La vittima, 57 anni, aveva l’incarico di portare il cibo al «lupo» di guardia e a un gatto - È andata a mezzogiorno portandosi un sacchetto con pane, pasta e una scatola di carne - Alle 18 il magazziniere va a prendere gli sci e la trova cadavere - L’assassino ha infierito con furia bestiale, schizzi di sangue sulle pareti - È un ladro sorpreso dalla vittima? Ma il cane non ha abbaiato - È sparito un martello».

Occorre in primo luogo mettere a fuoco la vittima. Maddalena F., di 57 anni, residente in via Alpignano con la figlia Silvana di 28 anni. Originaria di Bra, si è trasferita in gioventù a Torino dove ha sposato Pasquale Z., idraulico, di un anno più anziano. Il matrimonio non è stato mai felice malgrado la nascita di due figli, che hanno studiato e ottenuto quello che all’epoca si definisce “il pezzo di carta”, cioè un titolo di studio: Silvana, già ricordata, è segretaria d’azienda e Mario, trentenne, perito chimico, sposato e da poco padre di un bimbo.

Dopo il matrimonio di Mario, nel gennaio 1971, i rapporti tra i coniugi - che abitavano nella stessa casa ma, di fatto, vivevano separati - si sono fatti ancor più tesi. A febbraio Maddalena ha iniziato le pratiche per il divorzio. Pasquale Z., dopo aver tentato di dissuaderla, ha dato il suo consenso ma il giorno dopo, 25 febbraio, si è suicidato facendosi travolgere da un treno nella scarpata della linea per Modane all’altezza del cavalcavia di via Guido Reni.  Maddalena è stata poi assunta dalla fabbrica di cosmetici Clayton dove già lavorano la figlia Silvana e la nuora. È operaia confezionatrice ma svolge anche altre mansioni, dimostrandosi molto volenterosa.

La ditta Clayton è una microscopica realtà produttiva che ha sede nel borgo San Paolo, in via lssiglio n. 38, quasi all’angolo con la via Monginevro. Uffici e magazzino sono ricavati in due alloggi a piano terreno che si affacciano sulla via, i laboratori sono collocati in fondo al cortile. Il proprietario è Francesco R., di 48 anni, suo figlio Diego è il rappresentante e vi sono sette dipendenti.

Venerdì la Clayton ha chiuso per le feste pasquali. Negli uffici sono rimasti «Rocky», un cane lupo (oggi diciamo pastore tedesco) di un anno e mezzo, e Irene, una gatta. Maddalena è andata a portare loro da mangiare, compito che di solito svolgeva la figlia Silvana, che però è andata in montagna per qualche giorno. In effetti, poco dopo mezzogiorno Maddalena parte da casa sua, in via Alpignano, con il cibo in una borsa verde a rete.

Alle 18,15 in via lssiglio arriva in auto il magazziniere della ditta, Angelo A. È venuto a prendere gli sci nel magazzino, per andare in montagna il giorno dopo. Dirà agli inquirenti: «Sono entrato. Tutte le porte che si affacciano sul corridoio erano chiuse. Ho sentito Rocky guaire. L’ho portato a fare una passeggiata. Al rientro, nell’ufficio del direttore ho fatto la scoperta».

Il cadavere di Maddalena è nell’ufficio del proprietario, accanto alla finestra, supino, con il capo sfigurato in modo orribile. Sulle pareti, sino a due metri d’altezza, schizzi di sangue, altro sangue sulla tenda della finestra. È stata massacrata con un martello o con una spranga di ferro.

Iniziano le indagini della Squadra Mobile della Questura.

Molto presto l’attenzione degli inquirenti si concentra sul magazziniere che ha fatto la scoperta: Angelo A., di 27 anni, personaggio solitario e un po’ scorbutico, considerato dai conoscenti come tranquillo, anche se turbato dai ricordi di una infanzia triste, che vive da solo in corso Vercelli dopo un duro scontro con i familiari.

Angelo A. viene interrogato a lungo in Questura nella notte di domenica.

Al lunedì viene eseguito un sopralluogo in via lssiglio con il proprietario. Questi scopre che da una cassetta di arnesi è sparito un martello, forse l’arma del delitto. Nel pomeriggio di lunedì Angelo A. è di nuovo interrogato. Intanto la perquisizione nella sua abitazione fa ritrovare un paio di pantaloni lavati di recente.

Martedì 4 aprile Angelo A. è di nuovo in Questura. Al mattino, in via Issiglio viene ritrovato il famoso martello nella cassetta degli arnesi. Dopo l’interrogatorio di lunedì, alla sera, Angelo A. è andato dal proprietario della Clayton, si è fatto aprire con una scusa per recarsi nel magazzino. Tutto questo mentre era pedinato dalla Polizia.

Alle 17,15 di martedì Angelo A. crolla e confessa: «L’ho uccisa io. Sentivo ribrezzo per le sue offerte d’amore. Mi sentivo solo, il laboratorio è il mio mondo; a Pasqua sono andato là. Leggevo una rivista. Lei mi si è avvicinata, sorrideva in un modo strano, mi ha fatto delle proposte. L’ho respinta con sdegno, è caduta, le ho fatto battere la testa sul pavimento; quando ho visto il sangue sono corso a prendere un martello e l’ho massacrata».

Questo movente appare assurdo.

Angelo A. era amico di Silvana, la figlia della vittima, che ha mostrato un atteggiamento materno nei suoi confronti. Angelo A. aveva trascorso la Pasqua dell’anno precedente a casa della famiglia di Maddalena dove lo avevano invitato perché sapevano che era da solo! Fino all’ultimo Silvana lo ha difeso parlando con i cronisti.

Il movente indicato nella confessione è così insensato che «Stampa Sera» arriva a ipotizzare un complice oppure che Maddalena avesse scoperto qualche inquietante segreto di Angelo A. Ipotesi che non hanno seguito.

Il giorno 6 aprile, con la notizia dei funerali di Maddalena appare anche questa dichiarazione di Angelo A.: «Neanche con l’ergastolo potrei pagare per tutto il male che ho fatto».

Angelo A. è sottoposto a perizia psichiatrica su richiesta del difensore (l’incarico è conferito nel maggio del 1972) e viene processato in Corte d’Appello a Torino il 12 marzo 1974. Sostiene ancora la sua versione, che i figli presenti in aula smentiscono, e sulla sua personalità vi è uno scontro tra gli psichiatri periti dell’accusa e della difesa. Il 13 marzo viene condannato a 17 anni, sentenza che ascolta impassibile come è apparso per tutto il dibattimento.

Per il processo di appello, sempre su richiesta del difensore, un collegio di tre periti dovrà pronunciarsi sulla sanità mentale di Angelo A.

Da questo momento non si trovano più notizie del processo nell’archivio digitale de «La Stampa» e non possiamo quindi riferire ulteriori informazioni.

Per concludere, annotiamo che questo “delitto di Pasqua” è avvenuto in una Torino dove la criminalità comune era veramente scatenata, i furti molto frequenti, il senso di insicurezza molto diffuso. La rapida soluzione del caso da parte della Polizia è apparsa rassicurante mentre si stava svolgendo quella che «Stampa Sera» definisce «una impressionante catena di delitti», quasi tutti di matrice malavitosa e alcuni rimasti impuniti. Molto probabilmente ne parleremo in futuro.

E, malgrado tutto, Buona Pasqua!

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Articolo pubblicato il 12/04/2020