La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Un attendente infedele

Verso le ore dieci e mezzo della sera del 31 marzo 1873 molte persone si affollano in via Po, al civico 25, davanti al portone di casa Molina, più o meno di fronte alla chiesa di San Francesco da Paola.

Nel cortile del caseggiato si trova la nota e apprezzata Trattoria del Sussambrino, oggi scomparsa ma ancora ricordata perché, nel 1909, vi è stata cantata per la prima volta la canzone “Il Commiato”, divenuto poi “Giovinezza”, canto di addio agli studi dei goliardi torinesi, scritto da Nino Oxilia e musicato da Giuseppe Blanc.

Ma quella sera del 31 marzo la folla si è accalcata perché si è sparsa la voce di un tentativo di furto nell’alloggio di un ufficiale con successivo inseguimento dei ladri, sorpresi e messi in fuga, su per i sui tetti della casa.

Tutto questo viene così descritto nella Cronaca Nera della «Gazzetta Piemontese» di mercoledì 2 aprile 1873.

 

Cronaca Nera - L’altra sera, verso le 10 circa, si tentò di fare un bel colpo nell’alloggio del capitano del genio, certo signor G. A., sito in via Po, precisamente nel cortile della Trattoria del Sussambrino. Un ladro aveva stabilito di fare aspra vendetta sulla roba del bravo ufficiale assente, trasportandola in stranio loco, ma il ladro propone e i vicini dispongono: alcuni inquilini della casa avendo subodorata la cosa diedero tosto l’allarme, ed il poveraccio colla berta in sacco dovette fuggirsene su pei tetti come un gatto di febbraio.

Gli agenti di P. S., che non lasciano stare nemmeno i gatti pei tetti, fiutarono da lungi la bestia e l’acchiapparono. Alcuni vogliono sia l’ordinanza dello stesso capitano.

 

Occorre chiarire che i termini di «ordinanza» e «soldato di confidenza» indicano l’attendente, cioè un soldato semplice concesso a un ufficiale per il suo servizio personale, figura che non esiste più nel nostro attuale esercito.

Molto popolare in un passato anche prossimo, all’attendente sono state dedicate nel tempo numerose cartoline umoristiche e persino un fumetto per adulti, negli anni dal 1981 al 1983.

E il protagonista della nostra storia è proprio un attendente, Angelo Fontana, soldato di confidenza del capitano Gallet. È stato Fontana che ha dato l’allarme. Sostiene di aver sorpreso i ladri nell’alloggio, di proprietà del cavalier Stefano Bonacossa, che il capitano ha occupato fino a quella sera.

Accorrono i carabinieri e le guardie di pubblica sicurezza, prestano fede alle dichiarazioni di Fontana e salgono subito sui tetti, alla caccia dei ladri. Ma, malgrado accurate indagini, non trovano tracce dei fuggitivi e vedono soltanto tegole, camini e qualche gatto spaventato per la loro irruzione.

Arriva il capitano Gallet che esamina l’alloggio con il delegato di pubblica sicurezza, i carabinieri e le guardie, per capire come i ladri siano entrati e verificare cosa abbiano portato via.

Nella camera d’ingresso vi è una guardaroba aperta con la chiave nella serratura e molti oggetti sono sparsi sul pavimento alla rinfusa. In una camera che il cavalier Bonacossa si è riservata per uso personale, si trovano due valigie, scassinate e rotte, e molti capi di biancheria sparsi sul pavimento. Si notano tracce di violenza sulla porta che separa le camere, subaffittate al capitano Gallet, da quelle dove abita il cavalier Bonacossa.

Quando viene esaminata la porta d’ingresso dell’alloggio, con grande sorpresa non si trovano tracce di violenza all’esterno. La serratura pende, attaccata soltanto ad una vite, mentre le altre tre appaiono cadute sul pavimento ma senza essere state divelte con violenza, anzi dai segni rimasti nel taglio della capocchia, è evidente che sono state svitate con un cacciavite.

Si trova anche un arnese di ferro che può servire come cacciavite con i segni di un recente uso.

Fontana consegna poi agli astanti un pezzo di ferro che assomiglia a un grimaldello. Lui dice di averlo trovato all’esterno nella serratura della porta d’ingresso ma subito si accerta che tanto il “grimaldello” quanto il cacciavite sono di proprietà del cavalier Bonacossa che li teneva nella camera che si è riservata.

Il mancato accertamento di tracce di violenza fa subito nascere sospetti molto forti sul «soldato di confidenza» Fontana. Quando viene interrogato in tono incalzante, si confonde talmente che lo stesso capitano Gallet ordina di arrestarlo.

Il cavalier Bonacossa, avvisato del furto, accerta che l’entità del danno patito ammonta a circa 420 lire.

Nel corso dell’istruttoria viene accertato che solo Fontana poteva commettere il furto: dalle camere del suo padrone, capitano Gallet, poteva facilmente penetrare nella camera del cavalier Bonacossa e portar via comodamente gli oggetti rubati.

Anche nel capitano Gallet nascono forti sospetti sulla fedeltà del suo soldato: verifica e nota la mancanza di molti oggetti, fra cui una borchia d’argento, un paio di orecchini di diamante, un paio di spalline, un cinturino trapuntato in argento, un paio di stivali, una medaglia d’argento, ecc., per un valore di oltre 370 lire.

Fontana, interrogato sui due furti, nega con forza di essere il ladro, ma ben presto viene sbugiardato addirittura da suo fratello.

Questi, quando trova fra i vestiti di Angelo un portafoglio del capitano, si affretta a restituirlo. All’interno vi sono molte ricevute del Monte di Pietà e di banchi di pegno. Dopo aver riscattato gli oggetti impegnati, si verifica che sono quelli rubati al cavalier Bonacossa e al capitano Gallet.

Fontana, di nuovo interrogato, non può più negare di fronte alla evidenza delle prove: confessa ma ammette di aver rubato soltanto alcuni degli oggetti indicati da Gallet e Bonacossa nelle loro denunce ma non tutti.

Su queste basi, martedì 24 marzo 1874 viene celebrato il processo alla Corte d’Assise di Torino. Malgrado gli sforzi del suo avvocato difensore, Fontana viene condannato a sette anni di reclusione, come richiesto dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria. Lo racconta il cronista giudiziario Curzio nella sua Rivista dei Tribunali della «Gazzetta Piemontese» di sabato 28 marzo 1874.

In conclusione ricordiamo che il cavalier Stefano Bonacossa (Casalgrasso, Cuneo, 1804 – Torino, 1878), laureato in medicina, studioso delle malattie mentali, docente universitario, è stato direttore del Manicomio di Torino, dove si è prodigato per il miglioramento delle condizioni di vita dei ricoverati influenzando positivamente anche ospedali psichiatrici italiani ed europei. Nel 1874, al tempo della nostra storia, si era dimesso ritirandosi a vita privata.

Ma questa è un’altra storia.

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Articolo pubblicato il 19/04/2020