La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

«Gravi disordini alla Casa di Custodia la Generala» - 30 luglio 1875

«Oggi, (30 luglio) nel pomeriggio, si sparse come un lampo per tutta la città la notizia di gravissimi fatti avvenuti alla casa di custodia detta La Generala, ove sono racchiusi tutti i discoli minorenni della provincia.

Questo carcere, posto fuori della Barriera di Nizza, regione Lingotto, stradale di Stupinigi, è molto importante, contiene 300 celle, ed il numero dei giovani (età da 9 a 20 anni) reclusi, vi ascende da 300 a 400.

Si era veduto partire in fretta bersaglieri, linea [fanteria, N.d.R.], carabinieri, guardie di questura; in mezzo a grandissima folla erano stati condotti alla questura alcuni giovani arrestati; un’infinità di commenti, di supposizioni, di notizie, in cui in parte entrava l’immaginazione, correva per le bocche di ognuno», così la «Gazzetta Piemontese» di sabato 31 luglio 1875 dà la notizia col titolo «Gravi disordini alla Casa di Custodia la Generala».

Per la rivolta dell’istituto di pena - ancor oggi esistente in corso Unione Sovietica all’angolo con la via Berruti e Ferrero e corso Enrico Tazzoli - accorrono le autorità, i giornalisti e, a quanto pare, anche alcuni cittadini curiosi, visto che il cronista scrive: «Una lunga fila di vetture da nolo attende sullo stradale vicino le autorità e diversi cittadini per ricondurli in Torino». La Generala si trova al di fuori della cinta daziaria cittadina oltre la Barriera di Stupinigi, all’incrocio del corso Unione Sovietica con i corsi Bramante e Lepanto, con le costruzioni che iniziano a diradarsi poco oltre l’attuale corso Stati Uniti.

Per fermare il tumulto, il picchetto di bersaglieri che presidia in permanenza la Generala, ha sparato uccidendo un giovane recluso e ferendone altri. Subito si parla di eccessiva severità del Direttore e, dopo qualche giorno, questi indirizza una lettera alla «Gazzetta Piemontese» per difendere il suo comportamento. Le motivazioni reali e lo svolgimento del doloroso episodio posso essere conosciuti l’anno seguente, quando, al 28 e 29 gennaio, viene celebrato il processo a carico di 24 giovani rivoltosi. Lo conosciamo dal partecipe resoconto del cronista giudiziario Curzioncino (M.) apparso sulla «Gazzetta Piemontese», di sabato 5 febbraio 1876. Leggiamo:

«È noto come assai prima del 30 luglio p. p. in quel reclusorio che contiene da 300 a 400 giovani, dell’età dai 9 a 20 anni, si fosse sparso un tal malumore, che consigliò il direttore dello stabilimento ad invitare i reclusi a dirne liberamente le ragioni, ed esporre le loro lamentanze. Alcuni in seguito a ciò si alzarono, chiedendo che si ristabilisse la ricreazione com’era prima, e vi fosse più umanità per parte de’ guardiani. Ciò udito il direttore, ordinò tosto che questi oratori di quel piccolo popolo venissero messi alla cella oscura, a pane e acqua, la peggior punizione che là entro si possa infliggere.

Questo tratto inaspettato offese e irritò talmente i reclusi, che 200 circa di essi ordirono una rivolta.

E all’una pomeridiana del 30 luglio 1875 scoppiava infatti la ribellione, cui presero parte i fabbri, i musici, i calzolai, e i giardinieri.

Uno squillo di tromba, e un prolungato grido di avanti! morte al direttore! ne fu il segnale.

I rivoltosi si impadronirono delle armi dei guardiani, e due di questi, certi Vendemmia e Colitti, rimasero feriti dai reclusi Rotta e Beltramo.

I bersaglieri (3 uomini e un caporale) fecero fuoco sui tumultuanti. Un bersagliere [...] dall’alto d’una finestra sparò nove colpi; [...] prese di mira al capo certo Gherdonner Felice, d’anni 19, da Milano, segnato col num. 208, e lo stese morto a terra; e ne ferì altri due, Antonio Bertolotti, di 17 anni, da Carignano e Gaetano Tisan, di 18 anni, da Venezia. […]

Allora, dietro invito del guardiano Citerio, visti il morto e i feriti, tutti si calmarono e deposero le armi. […] Chi avrebbe mai creduto che in quel luogo, a quel momento, e in animi così esacerbati avesse potuto prevalere un pensiero gentile come quello che sto per dire?

Tutti i musicanti, come un sol uomo, corsero a prendere i loro strumenti, e intuonarono una marcia funebre al defunto loro compagno. Al suono di questa rientrarono tutti, quasi processionalmente, nei loro cameroni. Non mai quel pezzo di musica fa con tanta espressione eseguito; perché adesso era il dolore e la sventura che ispiravano quelle note di religiosa pietà.

Su 200 circa di quei rivoltosi 24 furono segnati come i capi […]».

I 24 imputati, compresi i due feriti, sono tutti accusati di rivolta. Inoltre Antonio Rotta, di 17 anni, da Milano e Francesco Beltramo, di anni 18, da Piacenza, anche di ferimento volontario e Luigi Delaide, di 20 anni, da Verona, è accusato di aver sobillato alla rivolta i falegnami della sua squadra, anche se non gli è riuscito.

Così il cronista Curzioncino (M.) descrive i testimoni e le loro dichiarazioni:

«I testimoni, in numero di venti, erano per la maggior parte guardiani, [...] dal complesso delle loro deposizioni ben si poté comprendere che quei giovani furono spinti a delinquere da misure di eccessivo rigore per parte della Direzione, siccome si espresse la Sezione d’accusa nella sua sentenza delli 16 novembre p. p., che rinviava la causa al Tribunale [...].

Risultò infatti dal dibattimento, non già che si fosse tolta la ricreazione, ma bensì che la si era resa una vera illusione, essendosi proibito di saltare, correre, parlare ad alta voce, e sedersi in terra: dovevano camminare due a due come i Padri Certosini. Risultò che troppo facilmente, e troppo spesso quei giovani si punivano colla cella di rigore; che per più d’un mese si tenevano a pane ed acqua, mentre tal pena non può oltrepassare i 15 giorni, a norma dei regolamenti; che si usavano modi così duri, che invece di correggere, come è lo scopo di quella casa, inasprivano gli animi da renderli peggiori.

L’imputato Gianelli con parole commoventi disse essere stato per quasi quattro mesi consecutivi nella cella di rigore, solo per una leggiera osservazione fatta al riguardo di una punizione inflitta a un altro che egli credeva innocente, e in cui favore volle parlarne al direttore. Niuno dei testi poté smentire né questa circostanza, né altri gravi fatti di simil genere.

Lo stesso teste Castellari, ex-guardiano, incalzato dagli imputati, dové ammettere di essere solito ad insultare con brutte parole i reclusi.

Il teste Orsi, guardiano, assicurò che se i detenuti avessero voluto, avrebbero potuto fare ben maggior male che non fecero. In ciò tutti i testi furono d’accordo.

Il capo-guardiano Citerio e tutti i guardiani ammisero che il regolamento dei reclusorii lascia in piena facoltà del direttore il dar castighi. E a questo proposito uno dei difensori, l’egregio avvocato Alberico Fara, provò con dati statistici che mentre nel 1873 su 330 reclusi alla Generala, si ebbero 179 condanne alla cella oscura, negli altri reclusori d’Italia su 494 tale pena gravissima non fu data che 63 volte. Dunque fu provato il soverchio, eccessivo rigore nell’ergastolo di Torino. Lo stesso avvocato dimostrò pure le condizioni antigieniche delle celle di rigore, e vi trovò la cagione della maggiore mortalità segnalata dalla statistica.

Il teste Marangoni, ex-guardiano, disse francamente che erano troppo puniti. [...]

Il teste Vigini Francesco, guardiano, ammise la esistenza di una circolare o lettera ministeriale che si lamentava del troppo sciupio di abiti e scarpe.

È forse in seguito a questa spilorceria che la gaia ricreazione fu convertita in lenta passeggiata?

Il guardiano Paolucci asserì che quasi subito dopo i deplorevoli fatti che abbiam narrati, la ricreazione venne poi concessa come prima. Ciò vuol dire che si riconobbe essere necessaria. E se era necessaria perché toglierla?».

Grazie all’impegno dei tre avvocati difensori, «il Tribunale presieduto da quell’ottimo magistrato che è il cav. Fiorito, poté maggiormente convincersi che qui era il caso di profferire una sentenza paterna. [...] il Tribunale, tenuto conto della provocazione e dei mali trattamenti verso gl’imputati, li condannava tutti al carcere, Rotta e Beltrami per anni 3, Bennati, Fantini e Tisan per mesi 3, e gli altri per mesi sei, computato quanto a tutti il carcere già sofferto. Tale mite sentenza, che onora assai i giudici che la proferirono, fu accolta dal pubblico con vera soddisfazione.

Gl’imputati che, avvezzi al male, si aspettavano il peggio, furono lieti nel sentire che fra due giorni uscivan tutti dal carcere. Tutti, meno due, cioè il Rotta e il Beltrami.

Qui ebbe luogo una scena commovente che mi ricordò quell’altra della marcia funebre intuonata il 30 luglio. Tutti, piangendo, ringraziarono ad alta voce i difensori, si baciavano tra loro, e specialmente coi due condannati a tre anni.

Di qui si pare, come anche in quei giovani vi sia un cuore capace, se ben educato, di buoni affetti. Spiacque al pubblico il veder condurre per le pubbliche vie, legati quattro a quattro, peggio che galeotti, quegli sventurati che, forse per trascuratezza o colpa delle loro famiglie, si trovano a quel passo; mentre i veri furfanti e gli assassini si conducono in carrozzoni chiusi dalle carceri al Tribunale. [...] E così la punitiva giustizia fu in parte soddisfatta. Ma l’umanità offesa ebbe quella riparazione che pur le si conveniva? Si sono traslocati direttore e varii guardiani. Ma si è fatta un’inchiesta? Quale ne fu il risultato? Vi sono altri colpevoli? Furono puniti? Si puniranno? - Ecco ciò che non si sa, e che i cittadini che pagano avrebbero pur diritto di sapere».

A questa solidale conclusione di Curzioncino (M)., si associa nello stesso giornale questo triste commento della Redazione: «[...] Da questo processo risulta ancor una volta dimostrato quali prepotenze, quali ingiustizie si consumino impunemente negli stabilimenti governativi; come il Ministro degli interni tutto immerso nelle briglie politiche non abbia il tempo di rivolgere alcun pensiero agli istituti importantissimi da esso dipendenti; sevizie, scarso e gramo il cibo, insalubre l’alloggio, sleale il procedere verso dei reclusi, quindi infine rivolte e sanguinose repressioni; ecco il ciclo entro cui si aggira l’insipienza dei nostri governanti».

Il linguaggio datato è del 1876, le considerazioni assumono purtroppo una grande attualità.

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Articolo pubblicato il 06/05/2020