Cronache criminali del passato

Torino, 30 agosto 1799: duplice condanna a morte

Il 30 agosto 1799, il Senato di Torino, massimo Tribunale penale del Regno di Sardegna, emette una severa sentenza contro due banditi di strada: Benedetto Molinaro, nato a Cagna (oggi San Massimo, località di Piana Crixia, in provincia di Savona ma al tempo comune autonomo in provincia di Alessandria), già abitante nella città di Bra (Cuneo) e Luigi Taberna, di Baldissero (non meglio precisato, visto che in Piemonte si trovano tre comuni con questo nome!), disertore delle Regie Truppe.

I due giovani accusati sono detenuti nelle carceri Senatorie e sono accusati dei seguenti reati.

Primo capo di accusa, è la rapina commessa tra le ore 5 e 6 della notte dal 9 al 10 maggio 1798, nei dintorni della città di Cherasco, nella casa d’abitazione dei fratelli Bernocco, Giovanni Battista e Giovanni Maria, dove si sono introdotti, mediante diverse rotture e utilizzando una scala a pioli. Partecipavano anche Antonio Audisio, morto in carcere, e i già condannati Bartolommeo Barbotto e Giuseppe Botto.

Erano tutti armati, chi di coltello, chi di pistola e chi di sciabola. Prima hanno chiesto il denaro, armi alla mano e con tono minaccioso, poi hanno portato via alle loro vittime diversi vestiti, biancherie e altri oggetti del valore totale di lire 87,15. La maggiore quantità della refurtiva apparteneva ai fratelli Bernocco. Una piccola parte era dei fratelli Aurelio di Torricella, il conte Francesco e il cavalier Michele.

Quando si sono allontanati, i rapinatori hanno intimato ai Bernocco di non uscire di casa se non volevano essere uccisi.

Il secondo capo di accusa addebita ai due accusati il fatto di essere vagabondi, abituati ad associarsi con malviventi. Sono oziosi anche se nullatenenti e per questo motivo sono sospettati di commettere furti. In particolare, Molinaro è sospettato di due furti eseguiti nei dintorni di Cherasco, il primo di due maiali e di un mestolo di rame nella notte dal 24 al 25 luglio 1795, a danno di Francesco Davico, e l’altro di tre maiali nella notte dal 10 all’11 del successivo agosto, a danno di Giovenale Bergesio.

Taberna, invece, è sospettato di aver rubato due asine a Marc’Antonio Ponciglione, di Baldissero, all’inizio dell’anno 1796.

Queste sono le accuse.

Il Tribunale, dopo aver ascoltato la relazione degli atti giudiziari, condanna i detenuti Benedetto Molinaro e Luigi Taberna alla pena di morte.

Leggiamo nella sentenza a stampa che i due dovranno «essere pubblicamente appiccati per la gola, finché l’anima sia separata dal corpo, e, fatto questo cadavere, manda ridurli in quarti da affiggersi ai luoghi soliti, torquiti però prima nel capo de’ complici a mente delle Regie Costituzioni, nell’indennizzazione solidaria colli suddetti condannati Barbotto, e Botto verso li grassati, e nelle spese, solidarie pur queste per il capo primo; mandando intanto restituirsi alli Bernocco, ed alli signori Conte, e Cavaliere fratelli Aurelio gli effetti di loro rispettiva pertinenza, esistenti presso l’Uffizio, che ha proceduto. Torino li 30 agosto 1799».

La sentenza è emessa secondo la legislazione in vigore nel Regno Sardo, basata sulle Regie Costituzioni del 1770. Secondo queste norme, il reato di «grassazione», ovvero di rapina, può essere commesso dovunque sia sulle pubbliche strade sia in luoghi privati e consiste in una depredazione compiuta con armi ed anche senza violenze fisiche o vessazioni di altro genere sulle vittime: comporta di per sé la pena di morte, anche quando il crimine è commesso per la prima volta e alla morte deve essere unita qualche esemplarità, a giudizio del Senato.

Le esemplarità possono essere applicate prima dell’esecuzione, mentre il condannato è condotto al patibolo (pubblica emenda; applicazione delle tenaglie infuocate, taglio della mano destra per i ladri sacrileghi) oppure dopo l’esecuzione della sentenza di morte con distacco della testa e taglio del braccio destro, poi attaccati al patibolo; squartamento del corpo con esposizione dei quarti; corpo bruciato e le ceneri sparse nel vento; confisca dei beni del condannato.

Le Regie Costituzioni prevedono anche la tortura dei condannati prima dell’esecuzione perché rilascino eventuali ulteriori dichiarazioni sui loro complici («torquiti però prima nel capo de’ complici»).

La sentenza si chiude con la condanna a indennizzare le vittime, insieme ai complici già condannati, e la disposizione di restituire ai derubati gli oggetti di loro proprietà, depositati presso l’Ufficio come corpi di reato.

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Articolo pubblicato il 30/08/2020