E adesso, pover'uomo?

I «moribondi» di Montecitorio e Palazzo Madama (di Aldo A. Mola)

Rinviare e improvvisare

E adesso, pover’uomo? Deputati e senatori trascorrono il loro primo fine settimana nei rispettivi collegi elettorali dopo il fatidico “taglio”. Meditabondi. I fautori del “Sì” al referendum mozza-parlamentari erano sicuri di tornarci da trionfatori. Invece nessuno è davvero in grado di dire chi meriti la medaglia di quel 69% di consensi andato alla più stupida manifestazione di antipolitica dal 1946 a oggi: la drastica riduzione della rappresentanza e la fine della libertà di scelta da parte degli elettori. I pentastellati hanno rivendicato e ancora accampano vittoria. Di Maio si è affrettato ad aggiungere che ora bisogna tagliare stipendi e benefit dei parlamentari. Da Bruxelles a sua volta Grillo ha aggiunto che gli italiani non hanno alcun bisogno di elezioni: i rappresentanti possono essere scelti per sorteggio, perché uno vale uno. Le solite scemenze da Elevato della domenica.

La verità dei fatti è più semplice e preoccupante. In quel 69% di “sissini” si sono ammucchiati grilloidi, vetero-leghisti dalla voce roca contro Roma-ladrona (quasi a Milano non avvenga mai nulla di… strano), Fratelli d’Italia e piddini fedeli alle direttive di Zingaretti, che da strenuo oppositore del “taglio” si è convertito al “sì” per raptus simpatetico verso Di Maio. Così ha mostrato lealtà a Crimi e a quanti nel frattempo non hanno approvato alcuna delle sue tante e tanto vanamente insistite proposte da oltre un anno sul tavolo di questo governo giallo-rosso-paonazzo. Il traino grillino si conferma prevalente (e prevaricante) come già era avvenuto nel precedente giallo-verde, sino a esasperare Salvini, che si stufò dei tanti “No” opposti dai suoi sodali di governo. Il metodo grillesco era lo stesso di oggi: abbozzare un logorroico “contratto per il governo” zeppo di promesse, sogni, vaniloqui e di alcune inaccettabili violazioni della Costituzione, passare all’incasso dopo il varo di provvedimenti strabilianti, come l’”abolizione della povertà”, e menare il can per l’aia con le proposte altrui. A distanza di due anni dalle elezioni del 2018 e con la presidenza di Conte Giuseppe (da Pietrelcina oltre che da Volturara Appula) le grandi partite rimangono come erano, anzi stanno peggio di allora: Alitalia, Ilva, disoccupazione giovanile, debito pubblico alle stelle, dilatazione oltre ogni limite accettabile della cassa integrazione e dei sussidi a pioggia, rischio di fallimento dell’Inps. Il tutto completo di stretta sull’uso del contante, occhio del fisco sui conti correnti e su ogni forma di risparmio, da punire come diserzione civile, e il sempre aleggiante fantasma della “patrimoniale” che trova d’accordo non solo i Liberi e Uguali (coi beni e coi soldi degli altri) e una fetta di catto-comunisti in sandali francescani, ma anche i devoti di Rousseau e del suo discepolo Proudhon, secondo il quale la proprietà è un furto. Sappiamo che “liberté, égalité e fraternité” (che adesso in Francia vogliono sostituire con “solidarité”) finirono sotto la lama della ghigliottina, la più ugualitarie delle forme di esecuzione capitale.

La prima settimana post “Sì” è trascorsa invano. Esaurita in due giorni la farsesca disputa tra chi assicura di aver vinto di più, come nel gioco dell’oca la politica è tornata alla casella di partenza: le dichiarazioni di Sua Emergenza, sempre più convinto di durare per l’eternità e, anzi, di balzare da Palazzo Chigi al Colle; gli appelli di Zingaretti, Orlando, Delrio e Franceschini che chiedono al governo di “fare qualche cosa”, di dare segni di vita sulle molte frontiere calde e il timore che i nodi stiano per venire al pettine: fallimenti a catena, aumento della disoccupazione, un’impennata di contagi anche solo in un paio di province o regioni più vulnerabili. Basta un nulla per far saltare il sistema-Italia, perché non è un sistema. È fondato sull’intreccio perverso tra rinvio e improvvisazione dell’ultima ora.

 

La Scuola, questa derelitta...

La Scuola ne è l’esempio più lampante, come da tempo ripete Ernesto Galli della Loggia non solo in editoriali di grande forza e di alto respiro ma anche nel libro L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola (Marsilio), la cui lettura raccomandiamo. Per mesi la scuola è stata terreno di chiacchiere e di incursioni spericolate, come le famigerate sedie a rotelle, partorite dalla fantasia di chi evidentemente non è mai stato in una classe e non si è mai chinato su un banco per leggere, scrivere, fare una traduzione, avere sotto gli occhi i due-tre libri indispensabili per scrivere un testo pulito, come spiegava a suo tempo Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, vittima del terrorismo rosso.

La scuola non è solo rossetto, sorrisi accattivanti, occhiate ammiccanti all’Arcuri, trastullo. È educazione all’auto-disciplina. L’aula non è uno spiazzo per gioco ai quattro cantoni, ma passaggio dalla distrazione all’impegno: canoni antichi e immutabili per formare alla concentrazione, premessa dell’apprendimento e dell’abito critico.

 

...e Le Camere che non rappresentano il Paese

I parlamentari dunque sono tornati nei loro “territori”. Ma non hanno motivo di esibire trionfalismo. Per loro non è tempo di vendemmia. Essi sembrano l’armata austro-ungarica descritta da Armando Diaz nel Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Vale appunto per il corpaccione dei gruppi parlamentari dei partiti che si sono spesi per il “sì”. Ricordiamone i due maggiori responsabili. Alle elezioni del 2018 i Cinque Stelle ottennero 198 deputati e 95 senatori. Il Partito democratico sommò 95 deputati e 35 senatori. Da soli i due “soci” principali dell’attuale governo contano 135 patres sugli attuali 330 e quasi 300 dei 630 deputati. Però alle elezioni degli euro-parlamentari nel 2019 entrambi (soprattutto i grilloidi) videro svaporare milioni di voti e alle regionali e comunali dello scorso 20 settembre i Pentastellati sono stati spazzati via. Recupereranno consensi al primo appuntamento elettorale? L’esperienza dice che una volta cambiato cavallo l’elettore non torna sui vecchi ronzini. I milioni e milioni di voti che gli italiani diedero per decenni a Democrazia cristiana, Partito comunista e a sigle intermedie che sembravano immarcescibili perché “di nicchia” (repubblicani, liberali, socialdemocratici e socialisti, malgrado politici di rango come Craxi) nel volgere di un paio di turni elettorali scomparvero completamente. A recuperarli non bastò che i loro dirigenti cambiassero nomi ed emblemi alla velocità di Fregoli. Il trasformismo funzionò ai tempi di Depretis. Fallì in quelli del mesto Zaccagnini e di Achille Occhetto che fuori tempo massimo travestì il PCI da partito Democratico di Sinistra, primo passo verso l’ammucchiata del partito Democratico odierno. Perciò il governo in carica e i suoi sponsor hanno il terrore delle urne e cercano di allontanarle al 2023 o anche più in là se possibile. Meglio mai, anzi.

 

I Moribondi di Montecitorio e di Palazzo Madama

Mentre gli storici riflettono sul passato prossimo e su quello remoto, incalza il futuro: quello voluto dal 69% dei votanti che il 20 settembre hanno dato ragione ai parlamentari che approvarono in massa la riduzione degli scranni. Con il proprio voto gli elettori hanno decretato che un terzo dei loro rappresentanti se ne deve andare. Subito. Visto l’esito del referendum, infatti, non si capisce come possa sostenersi che il Parlamento in carica rappresenti ancora gli italiani. Mistero buffo. In realtà, esso stesso prima e i “Sì” della scorsa settimana poi ne hanno decretato l’abusività. Non c’entrano né il covid-19, né il Recovery fund o il Recovery plan, l’elezione del futuro presidente della Repubblica o la stabilità del governo. Semplicemente, è evidente che la composizione del Parlamento attuale è in aperto contrasto con la volontà dei cittadini (oltreché di quella dei suoi stessi membri).

Deputati e senatori odierni sono come il cavaliere antico, che “andava combattendo ed era morto”. Perché dal passato lunedì moribonde sono le Camere. Esse però non sono state vulnerate dagli zuavi pontifici o dai lanzichenecchi: hanno fatto tutto da sole. Esse stesse hanno diffuso nell’opinione pubblica la convinzione che costavano troppo, poco facevano e quindi non avevano motivo di rimanere lì, né in presenza né “da remoto”, nella Città Eterna.

Ma chi, proprio chi (nome e cognome), dei tanti “eletti” del 2018 prima o poi dovrà comunque togliere il disturbo? Mistero fitto, per ora. Manca una penna come quella di Ferdinando Petruccelli della Gattina che descrisse argutamente I moribondi di Palazzo Carignano, un classico della politologia. Ha supplito l’anonimo autore di Io sono il potere (Feltrinelli), che ha messo a nudo la pochezza di partiti piccoli e grandi, ministri, viceministri e sottosegretari, uffici parlamentari e via continuando, perché questi passano mentre i grands commis restano; e anno dopo anno, un governo dopo l’altro, tirano le fila del Grande Gioco.

Adesso che sono tornati a casa, i Moribondi di Montecitorio e di Palazzo Madama si ritrovano alle feste e alle fiere che sfidano il covid-19, a convegni con relatori e ascoltatori imbavagliati e debitamente distanziati, e si guatano l’un l’altro. A chi toccherà stare a casa per sempre? A tanti. Comincia il macabro gioco del tiro al piccione per escludere chi sarà di troppo. In province ove un tempo c’era spazio per quattro deputati e due senatori ora ne basteranno la metà. Immense plaghe resteranno prive di rappresentanza alla Camera Alta. Per salvare l’Impero Diocleziano inventò la Tetrarchia. Oggi si riducono i rappresentanti e si divaricano i cittadini dalle istituzioni. Antipolitica. Ne vedremo delle belle.

Mes, Piano credibile per i fondi europei, sciogliere le righe e aprire le urne

Appena preso gusto ai saloni di Montecitorio e di Palazzo Madama (ma non erano la sentina di tutti i mali d’Italia?), ora tanti pivelli passati d’un balzo dal nulla a decidere le sorti dell’Italia si domandano “che sarà di me, pover’uomo?” (“o povera donna?”, aggiungiamo in omaggio alle quote rosa...).

Ai Moribondi del Parlamento va ricordato che hanno tre doveri da compiere senza ulteriori indugi. In primo luogo chiedere subito il fondo MES a fronte di un piano credibile di investimenti nel settore al quale sono destinati, con tutti i vincoli di legge: la sanità. La sanità non se la passa affatto bene in Italia, come sa e sempre più scopre chi ha la sfortuna di averne bisogno per sé, famigliari e conoscenti. Ha urgente necessità di riorganizzarsi, anche nelle regioni che prima del covid-19 sembravano all’avanguardia in Europa. Non c’è nulla di vergognoso nel chiedere un prestito quando se ne abbia necessità. Col debito pubblico che si ritrova, ogni giorno maggiore, l’Italia non è in grado di auto-finanziare l’ammodernamento della sanità e della ricerca, da anni negletta, come la Scuola e l’Università. Vergognosa non è la richiesta del MES, ma la condizione del sistema sanitario nazionale, vulnerabilissimo. Per ora non è stato messo alla prova, a differenza di quello di altri Paesi europei, quali Gran Bretagna, Spagna e la confinante Francia. Ma se, fatti i debiti scongiuri, dovesse accadere? Vergognoso, semmai, è non restituire il prestito o usarlo male o pretendere di non darne conto quando lo si deve fare. Per sua fortuna l’Italia ha un’opportunità a portata di mano e non può gingillarsi col rimpallo da anni in corso per non contrariare i grillini e indirettamente Sua Emergenza il Dubbioso, che ha tutto l’interesse ad allungare i tempi di qualsiasi decisione vera. Il rinvio è la sua assicurazione sulla permanenza a Palazzo Chigi. Giova a lui e al suo immenso parco di esperti e consulenti (altrettanti ne hanno Di Maio e svariati ministri che manco sanno quanti siano i dipendenti dei loro dicasteri).

In secondo luogo questo Parlamento ha il dovere di redigere subito un progetto attendibile per intraprendere il lunghissimo percorso che in capo a un paio d’anni potrà far affluire le prime quote del Recovery Fund, posto che non si metta di traverso la crisi delle istituzioni comunitarie e che la tensione tra USA e Cina non superi la soglia di sicurezza (altrettanto vale per gli scontri in atto in Libia e nel Mediterraneo orientale tra Grecia e Turchia).

Per la sua formulazione non occorre niente di più di quanto è stato accumulato in mesi di convegni, commissioni di esperti, passerelle e chiacchiere varie (stile Villa Pamphili), a parte i soliti ormai superflui “fori” di scontatissime ovvietà. È ora di passare dal fumo all’arrosto, dai garbugli alla sintesi. Anche i santi scelgono chi aiutare. Al momento le richieste di Fondi sommano a oltre 600 miliardi: tre volte la disponibilità prospettata. A chi tocca decidere? Alla Lagarde? Alla Von der Leyen? Tocca all’Italia, a questo governo frenetico e abulico, presenzialista e atono.

Infine i Moribondi di Palazzo Madama e di Montecitorio debbono varare in brevissimo tempo la legge elettorale di cui si parla da anni ma che è stata allontanata prima delle regionali e del referendum come fosse una tazzina al cianuro. Adesso il Parlamento deve bere. Il nodo è ineludibile. Zingaretti ne aveva proclamato l’urgenza estrema prima dell’appuntamento elettorale del 20 settembre. Che cosa fa adesso? Traccheggia? La legge elettorale è l’ultimo atto del Parlamento attuale. Un atto dovuto, il suo “testamento politico”, prima dello “sciogliete le righe”.

 

“Tu l’as voulu...”

Il Presidente Sergio Mattarella afferma che gli italiani amano la libertà e la serietà. Con tutto il rispetto che gli si deve, ci pare una valutazione un tantino ottimistica. Si può convenire che forse molti italiani amano la libertà, parecchi la licenza, altri infine preferiscono le tenebre anziché la luce come ammonisce il Vangelo di Giovanni. Non sappiamo quanti davvero prediligano la serietà. Il varo della legge elettorale, la richiesta immediata del MES, la presentazione dei progetti finanziabili con fondi europei, lo scioglimento delle Camere e la consultazione degli italiani mostrerebbero agli osservatori esteri che i parlamentari sono seri, sanno prendere atto delle conseguenze delle loro decisioni (a volte nefaste) e accettano di mettersi da parte quando è il momento.

Ma di questa capacità critica per ora manca ogni prova. Quanto ai musi lunghi di deputati e senatori ormai palesemente in soprannumero l’unico commento è: “Tu l’as voulu, George Dandin!”. Hanno giocato, hanno perso e presto pagheranno il conto del loro suicidio politico-istituzionale, che trascinerà con sé lo sfoltimento di tante istituzioni e presenze dello Stato “alla periferia dell’Impero”, determinando l’inevitabile impoverimento della democrazia: obiettivo ultimo e ormai palese delle manovre antipolitiche da tempo in corso.

Aldo A. Mola

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Articolo pubblicato il 27/09/2020