La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Un facchino di condotta poco illibata

Nel raccontare questa storia, l’anonimo cronista della Gazzetta Piemontese è partito bene.

Con un incipit degno di un feuilleton, scrive nella Cronaca Nera di venerdì 3 novembre 1871 che nella notte fra il 1° e il 2 novembre, «… chi fosse passato verso la mezzanotte in via della Rocca, avrebbe trovata un uomo di giovane età semivivo al suolo e tutto grondante di sangue per due profonde coltellate al basso ventre.

Una guardia municipale della sezione Po, pochi momenti dopo a stento raccoglieva l’infelice, e mercé l'aiuto di altre persone lo trasportava colle cautele possibili all'ospedale di S Giovanni, ma il ferito quasi subito spirava fra acuti spasimi.

II disgraziato giovane è certo Dematteis Giovanni, d'anni 23, facchino alla ferrovia. Il feritore è rimasto tuttora ignoto, né si poté riuscire ad avere qualche indizio dell'accaduto, stante lo stato grave in cui versava il Dematteis allorquando fu rinvenuto in istrada, però avendosi fortissimi sospetti sopra tale R. G. facchino, individuo di condotta poco illibata, questi venne arrestato dalle guardie di Pubblica Sicurezza.

Speriamo si venga a capo di qualche cosa».

Il cronista non ci fornisce ulteriori notizie sulle indagini relative alla morte del povero Dematteis.

A quanto pare gli inquirenti non vanno molto oltre l’arresto di quella persona sospetta indicato come «tale R. G. facchino, individuo di condotta poco illibata».

Si tratta di Giovanni Ricchione, facchino di 31 anni, nato a Ceres e residente a Torino.

Ricchione ha dei precedenti penali, è arrestato fin dal 2 novembre 1871 e viene accusato del ferimento volontario di Giovanni Dematteis che ne ha causato la morte quasi istantanea: Dematteis è stato infatti colpito da due coltellate, quella alla regione ombelicale è stata mortale. Lo scontro è stato preceduto da un alterco.

Giovanni Ricchione viene processato per questa accusa dalla Corte d’Assise di Torino nel dicembre del 1872. Non sappiamo quale sia la sua linea di difesa perché non disponiamo di una cronaca giudiziaria ma soltanto della sentenza del 12 dicembre dove leggiamo che secondo il verdetto dei giurati è colpevole di ferimento, commesso senza che potesse facilmente prevedere le conseguenze del suo gesto, nell’impeto dell’ira e in seguito a provocazione non grave.

Tenendo anche conto della sua recidività, viene condannato alla reclusione per dieci anni, alla indennità verso gli eredi del morto e alle spese processuali. Il coltello, presentato dall’accusa come corpo del reato, viene confiscato.

Si conclude così questa triste vicenda della quale sappiamo troppo poco per esprimere ulteriori analisi e considerazioni.

Ci soffermiamo però sulla relazione esistente fra i facchini torinesi e il professor Cesare Lombroso (Verona, 1835 - Torino, 1909). Lombroso non si è occupato di questo caso specifico: nel 1872 si trova ancora a Pavia, dove il 5 ottobre è nata la sua seconda figlia Gina. Soltanto nel 1876 Lombroso si trasferisce a Torino, come professore ordinario di Medicina Legale all’Università di Torino e, nel 1879, si occupa dei facchini torinesi. In questo caso, però, la criminologia non c’entra affatto.

Lombroso ha iniziato a studiare nei facchini i loro “segni professionali” cioè le lesioni provocate dal loro lavoro in particolari punti del corpo: ispessimento e callosità della pelle della schiena, curvatura della schiena, modificazioni delle ossa vertebrali per l’azione continuata dei pesi portati e altre lesioni di questo genere. Uno studio benemerito, oggi definibile di “medicina del lavoro”, che però lo porta a conclusioni perlomeno bizzarre e stravaganti.

Nel 1879, Lombroso pubblica le sue ricerche col titolo Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle ottentotte, camelli [sic! N.d.A.] e zebù, sul Giornale della R. Accademia di Medicina di Torino, prestigiosa istituzione scientifica con sede in via Po. Scrive che, con la partecipazione del dottor Filippo Cougnet, suo collaboratore nel Laboratorio di medicina legale e psichiatria sperimentale dell’Università di Torino, ha studiato i “segni professionali” in 20 facchini del porto di Genova (camalli) ed in 75 facchini e 36 brentatori torinesi.

Fin qui, nulla di particolare: sono corrette osservazioni inerenti la “medicina del lavoro”, utili per la prevenzione o, almeno, la limitazione di queste lesioni in altri lavoratori.

Ma nel loro lavoro, che dedicano “a Carlo Darwin”, Lombroso e Cougnet vanno molto, troppo, oltre. Hanno osservato che in sei facchini torinesi, oltre alle lesioni prima descritte, sono presenti dei lipomi, cioè degli anomali ammassi di grasso al di sotto della pelle della schiena; in un caso questi lipomi sono numerosi.

Questo riscontro basta al professor Lombroso per stabilire un ardito parallelo: in primo luogo con la steatopigia delle donne ottentotte, detta anche “cuscinetto posteriore”, costituito da un accumulo di grasso nelle natiche e nella regione esterna del femore.

Ma non basta, Lombroso collega il lipoma dei facchini alle gobbe del “camello” (Lombroso lo chiama proprio così!), gobbe che sarebbero frutto dell’attività di trasporto cui questi animali sono stati sottoposti fin dai tempi più remoti. E ancora, Lombroso coinvolge nel suo ragionamento anche lo zebù che, sul collo, ha una gobba. Anche la gobba dello zebù deriva dai pesanti carichi che l’animale trasporta.

Così Lombroso evoca uno stretto legame fra il tumoretto professionale dell’uomo e le gobbe degli animali tanto da ritenere che abbiano una comune origine nelle sollecitazioni derivanti dal trasporto di pesanti carichi.

Un bel volo pindarico: ecco perché dicevamo che le conclusioni del lavoro del professor Lombroso, intitolato appaiono oggi perlomeno bizzarre e stravaganti. Lombroso ignora infatti che le gobbe di cammelli e zebù non sono provocate dai pesanti carichi perché in questo caso non sarebbero caratteristiche ereditarie legate al patrimonio genetico ma mere particolarità acquisite non trasmissibili alla discendenza.

Di questo studio del professor Lombroso si era occupata in passato mia moglie Donatella Cane, per evidenziare come nella casistica lombrosiana fossero presenti diversi facchini provenienti dalle Valli di Lanzo, come il protagonista della nostra storia. Così Donatella concludeva il suo studio: «Ma ci fa piacere pensare che il professore abbia per molti anni esposto con convinzione idee che erano nate nella sua mente vulcanica dalla osservazione delle lesioni che il faticoso lavoro quotidiano aveva provocato nei facchini torinesi».

 

Donatella Cane, I facchini di Viù e il professor Cesare Lombroso – 1879, Neos News, n. 1, gennaio 2009, pp. 23-25.

Gazzetta Piemontese, 3 Novembre 1871.

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Articolo pubblicato il 28/10/2020