La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Il ladro N. 316

Per il racconto odierno è stato evocato il dottor Antonio Marro, Medico-Capo al R. Manicomio di Torino già Sanitario al Carcere Giudiziario e già Assistente alla Cattedra di Medicina Legale di Torino. Nel 1887, il dottor Marro pubblica I caratteri dei delinquenti. Studio antropologico-sociologico presso i Fratelli Bocca Editori che hanno sede a Roma, Torino e Firenze.

Da questo studio riprendiamo la vicenda di un ladro, di Torino o almeno della sua provincia, del quale il dottore non riporta il nome indicandolo soltanto col numero 316 della vasta casistica considerata. Ci dice soltanto che ha 41 anni, pesa 59 chilogrammi, è alto 1,68 m, ha i capelli castano grigi folti e la barba rara. Figlio di madre alienata ovvero affetta da infermità mentale, ha frequentato la scuola fino alla 4a elementare e ha abbandonato la famiglia a 18 anni.

Il N. 316 viene preso in considerazione a proposito delle “Anomalie psichiche in criminali reclusi”: il dottor Marro lo ha esaminato quando era detenuto al Carcere Giudiziario, che noi conosciamo come Carceri Nuove di corso Vittorio Emanuele II 127. Ne ha tratto la conclusione che, quando ha commesso il reato di furto per il quale è stato condannato, era malato di mente e perciò doveva essere prosciolto dall’accusa in considerazione di questa sua condizione. Le osservazioni relative al N. 316 sono esposte nel capitolo dedicato alle “Manie e monomanie”.

Leggiamo:

Mania legittima era invece quella del ladro N. 316. In questo l'alterazione morale precedette e si conservò predominante sulla intellettiva. Alla sua entrata in carcere io veniva, col prof. L. Berruti, incaricato di riferire sul suo stato mentale.

Era egli imputato di furto qualificato. Poliprofessionista, ora stampatore, ora imbianchino ed ora anche pittore, girovagando in cerca di lavoro, aveva trovato temporanea occupazione in un paesello sull'Astigiano. La famiglia che gli dava lavoro, l'aveva parimenti ricoverato in casa, quando un bel mattino trovò, con dolorosa sorpresa, ch'egli se n'era partito, insalutato ospite, e che con lui erano parimenti spariti gli ori della padrona e L. 3000, che il padrone, lui presente, aveva ricevuto il giorno precedente. Il furto era abbastanza evidente; siccome però si sollevò il dubbio sulla integrità delle facoltà mentali dell'imputato, così venne a noi dato l'incarico di sottoporlo a regolare osservazione per riferire quindi in proposito.

Una prima dichiarazione nostra, che si trattava di un alienato, non voleva quasi trovar credenza presso i magistrati, e solo dopo aggiunte nuove prove e documenti giustificativi, si venne nella decisione di prosciogliere l'imputato dall'accusa ed inviarlo al Manicomio.

Eppure sulla realtà della sua pazzia non poteva restar dubbio. Figlio di madre alienata, si era egli da ragazzo mostrato discolo, insubordinato, volubile, dedito al rubacchiare ed all'abuso degli alcoolici. Né in collegio, né alle varie officine cui era stato avviato dal padre, non aveva mai saputo manifestare applicazione di sorta al lavoro.

Arruolatosi più tardi volontario nell'esercito, veniva per furto condannato alla reclusione militare; ma poi, manifestatisi sintomi di pazzia, ne era stato dimesso.

D'allora in poi accessi di mania ed azioni criminose erano venute alternandosi a vicenda.

Riparava dapprima al manicomio. Uscitone, commetteva una truffa, spacciandosi commesso di negozio, ed ottenendo merci per più centinaia di lire. Ne consumò i proventi, poi, dopo un lauto pranzo, si esplose un colpo di pistola nell'orecchio destro. Non ne morì, ma ne riportò una paralisi permanente alla guancia. Più tardi veniva in carcere per furto.

Due anni dopo, le guardie di pubblica sicurezza lo trovano un mattino d'inverno girovagare seminudo per le vie della città e lo riconducono al manicomio. Quivi formava l'oggetto di una monografia per parte del dottor Albertotti, inserita nel giornale dell'Accademia di medicina. Stette più mesi nel manicomio, finché gli riescì di eludere la vigilanza dei custodi e fuggire; né più se ne ebbe notizia fino all'epoca in cui commise il furto delle 3000 lire. Ad onta del difetto della guancia, ogni indagine per scoprirlo era stata inutile, quando, un mese dopo il furto, presentavasi egli stesso al questore di Livorno in Toscana, qualificandosi medico di Pianezza, e domandando il rimpatrio gratuito per sé e per una sua compagna, che presentava come sua moglie.

Informazioni telegrafiche scoprirono l'insussistenza delle sue asserzioni, onde egli veniva arrestato ed inviato a Torino, ove il difetto della guancia permise di stabilire la sua identità.

In carcere il disordine delle sue facoltà mentali non tardò ad essere riconosciuto. Egli manifestava un delirio fastoso spiegato. Si credeva in relazione colla stella bistella, padrona del mondo, colla quale corrispondeva una buona parte della giornata. Era padrone di bastimenti, conosceva il modo di pietrificare lo zucchero rosso e convertirlo in oro. Aspettava sempre l'arrivo in porto dei suoi bastimenti e si lamentava dei suoi nemici che lo trattenevano in carcere. Frattanto, per mesi e mesi dormì poco o nulla. La guardia che ispezionava l'infermeria di notte lo trovava sempre sveglio. Ebbe due accessi di sitofobia. Nel primo stette due giorni soli senza gustar cibo o bevanda. Nel secondo, che si protrasse fino al 5° giorno, ricorsi all'alimentazione artificiale colla sonda. Egli passò i quattro giorni dell'accesso immobile a letto, a bocca chiusa ed occhi spalancati giorno e notte, senza profferir parola, impassibile alle punture, allo stimolo elettrico e ad ogni eccitamento adoperato per svegliare il senso del dolore. Al quinto giorno balzò improvviso dal letto, e, seminudo, si mise a ballare per l'infermeria la danza più sfrenata.

La storia dell'infelice e la raccolta dei documenti che la comprovavano convinse alfine i magistrati, e l'imputato venne rinviato al manicomio.

 

A completamento di queste considerazioni sul ladro n. 316, dallo studio del dottor Marro si traggono queste ulteriori informazioni. Si tratterebbe di una mania fastosa.

Dalle tabelle annesse allo studio, apprendiamo che il furto delle 3.000 lire (nella tabella si dice 2.500 lire) è stato commesso a causa di cupidigia, nel marzo del 1882 e per questo è stato condannato a due anni di custodia. È inviato al Manicomio sulla base della dichiarazione medica che attesta la sua infermità mentale.

Lo studio del dottor Marro è molto apprezzato. Come si legge sul frontespizio, viene premiato al Concorso Internazionale di Antropologia criminale indetto dalla Direzione della Rivista delle Discipline carcerarie.

Costituisce, nel giudizio dei contemporanei, una attenta e vasta analisi sulle caratteristiche antropometriche, biologiche, psicologiche e sociali dei delinquenti. Viene successivamente tradotta in francese e diventa un fondamentale paradigma per catalogare i criminali.

Quando scrive I caratteri dei delinquenti, il dottor Marro, nato a Limone Piemonte in provincia di Cuneo il 31 dicembre 1840, ha 47 anni. Fino a quel momento ha vissuto una vita forse più avventurosa di quella del suo biografato. Figlio di un modesto panettiere, nel 1863 si è laureato in medicina e chirurgia all'Università di Torino malgrado le difficoltà economiche della famiglia. Ha pubblicato la sua tesi “Del nuoto in rapporto coll'educazione fisica”. Per due anni è medico nella Marina militare poi diviene medico condotto a Limone Piemonte. Opera per 17 anni e nel 1880 raccoglie le sue esperienze nel libro “Guida all'arte della vita”.

La prematura morte di Maddalena Viale, sua prima moglie, lo induce nel 1882 a trasferirsi con i quattro figli a Torino. Diviene medico delle Carceri Nuove e inizia una collaborazione con Cesare Lombroso, del quale diviene assistente presso il Gabinetto di Medicina Legale dell'Università. Frequenta inoltre il Laboratorio chimico d'igiene del Municipio.

È autore, nel 1885, della monografia “l carcerati”, dove prende in esame la psicologia dei reclusi. Pubblica vari studi, spesso in collaborazione con Lombroso, dedicati ai pazzi e ai criminali e, in particolare considera l'influenza dell'età dei genitori sui caratteri psicofisici dei figli (1887), offrendo così un ulteriore settore di ricerca per antropologi e sociologi.

Viene designato medico capo-divisione nel Manicomio torinese, nel 1885, e l'anno successivo ottiene la libera docenza in psichiatria. Nello stesso anno, il suo studio “I Caratteri dei delinquenti” è premiato al Concorso Internazionale di Antropologia criminale.

Successivamente alla pubblicazione di questo importante lavoro, il dottor Marro fonda nel 1888 la rivista “Annali di freniatria e scienze affini”, pubblicazione del Manicomio torinese. Ne mantiene la direzione fino al 1913 e vi pubblica la maggior parte dei suoi successivi studi. Nel 1890 è nominato medico primario del Manicomio, e in seguito ne assume la direzione, con estensione della funzione di direttore sanitario anche alla sede di Collegno. Mantiene queste mansioni fino alla morte. Compie una lunga visita di studio nei principali manicomi d'Europa. Importanti i suoi studi sulla pubertà maschile e femminile, diretti a prevenire nei giovani la degenerazione e l'eredità patologica. Fonda nel 1900 l'Istituto medico pedagogico pei fanciulli deficienti di Torino, mantenendone la direzione fino al 1910. È presidente dal 1907 della Società di patrocinio pei poveri dimessi dal manicomio.

Marro ha grande ascendente sui ricoverati al Manicomio. Nel 1912, a Collegno, quando i criminali alienati si ribellano, da solo fronteggia e disarma un temibile soggetto che impugna un lungo pugnale.

Fino alla morte, avvenuta a Torino il 5 giugno 1913, continua la sua attività di divulgatore scientifico di psichiatra, criminologo, sociologo ed educatore. Il suo ultimo studio, dedicato a “I fattori cerebrali dell'omicidio e la profilassi educativa”, appare postuma, nel 1916, curata dal figlio Giovanni, che ha seguito le orme paterne specializzandosi in psichiatria.

Antonio Marro è ricordato a Limone Piemonte da un busto in bronzo, opera dello scultore Cesare Zocchi, inaugurato il 25 settembre 1921.

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Articolo pubblicato il 12/11/2020