I Lazzaretti in Piemonte

Lazzaretto deve il proprio nome all’isola di Santa Maria di Nazareth a Venezia

Oggi, in piena pandemia, guardiamo con crescente apprensione i dati giornalieri relativi ai ricoveri in ospedale e a quelli in terapia intensiva: dati e immagini che emblematizzano ed emblematizzeranno per tanto tempo, le future memorie sul Corona virus.

Anche se naturalmente non è credibile un raffronto sul piano scientifico e clinico, può essere interessante ripensare a quelle che furono le terapie intensive ante litteram: i lazzaretti. A tal proposito si propone la sintesi di una ricerca sull’argomento e he ha il proprio focus sul Piemonte.

 

Dal punto di vista etimologico, lazzaretto deve il proprio nome all’isola di Santa Maria di Nazareth a Venezia, anticamente detta Nazarethum, per sovrapposizione con il nome del personaggio evangelico Lazzaro, appestato per antonomasia, si mutò in “lazzaretto”.

Tecnicamente, il lazzaretto era un tipo di ospedale destinato all’isolamento degli ammalati affetti da malattie contagiose e spesso incurabili. Il sinonimo moderno è “ospedale contumaciale”; il termine lazzaretto era usato anche per indicare il luogo destinato alla quarantena.

 

In Europa, la necessità di costruire i lazzaretti fu avvertita nel XV secolo: il primo esempio è costituto dal già citato caso dell’isola veneta di Santa Maria di Nazareth (1423), nella quale vennero ospitato quanti, provenienti dalla Terra Santa, soffrivano di malattie infettive

 

In genere, il lazzaretto era un luogo isolato, fuori dalla città, in cui l’accesso e l’uscita dei degenti erano rigorosamente controllati. Strutturalmente si articolava intorno a un edificio di culto, circondato da un gruppo di cortili nei quali erano presenti varie costruzioni: tutto il complesso era cinto da un muro invalicabile.

 

In Piemonte, soprattutto nelle fonti del XVI-XVII secolo, il lazzaretto viene genericamente indicato con “cabane”: capanna, baracca, o altro luogo di ricovero di fortuna (con questo termine si indicavano anche generiche sedi dedicate alla quarantena); abbiamo conferma in alcune fonti piemontesi del XVII secolo, in cui è indicato: “alle capanne o sii lazzaretto”; inoltre apprendiamo che nel 1630 la comunità di Cherasco costituì delle “cabane” tra la Stura e il Tanaro, ben lontane dalla città.

 

Le “cabane” o “gabane”, durante la peste del 1630, a Torino, erano in Levaldocho (Valdocco) e in Vialbre e Rivagagliarda (luoghi non identificati); alla cascina “Fossata” vi era un lazzaretto (situato tra le attuali vie Fossata, Randaccio e Ala di Stura): sembrerebbe evidente una differenza tra i siti; probabilmente di carattere strutturale, ma con identiche funzioni operative (Lettera inviata dai governanti i Torino al duca Carlo Emanuele I, Archivio di Stato di Torino, Carte Paesi, m. 27, n. 9).

 

Alcune indicazioni sulla realizzazione e organizzazione delle “cabane” sono contenute nel testo di M. AgostinoBucci: Modo di conoscere et distinguere gli influssi pestilenti raccolti da M. Agostino Bucci (Torino 1585).

Sull’organizzazione del sistema dei lazzaretti di Torino, ci sorreggono alcune informazioni di F.M. Roffredo (Pestis et calamitatum Taurini subalpinae Galliae metropolis anni 1599, Torino 1600, che riporta un inventario (datato 3 febbraio 1599) relativo ai materiali destinati ai ricoverati: “otto dozzine di materassi; 20 dozzine di coperte; 28 dozzine di pagliericci; 300 lenzuola; 35 vesti nuove; 800 e più assi di pioppo, una gran quantità di camicie più i paioli ed altri utensili di cucina”.

 

Conosciamo anche i “serventi” che operavano, nel mese di luglio 1599, nei lazzaretto delle “Maddalene”: “1 maestro di casa, 1 macellaio; 1 conduttore di cavalli; 1 conduttore del carro; 1 dispensiere; 1 scrivano; 2 portatori; 1 distillatore (o vinaio); 5 facchini; 3 formai; 1 servitore” e quello della “Fossata”: “1 maestro di casa; 1 venditore di carne di castrato, 1 macellaio; 1 conduttore di cavalli; 2 panettieri; 4 facchini per le spese; 4 acquaioli; 3 inservienti”.

 

Le informazioni sulle modalità amministrative poste alla base dei lazzaretti non sono numerose e soprattutto non abbiamo modo di ricostruire l’organizzazione che governava queste strutture. Tra le fonti più antiche vi è un documento che ci consente di conoscere alcuni fatti risalenti al 1451-1452 e riguardanti Moncalieri: la comunità affittò una casa situata in un’area fuori città (Mairano) “pro reducendo personas contagiosas morbo pestis” (Archivio Comunale di Moncalieri, Conti esattoriali, v. 15, f. 20).

 

Una trentina di anni dopo, vennero acquisite alcune casupole (domuncule) situate nei pressi del Po e dietro la conceria di Giacomino Carcaterra ed “aput cantonum tencha”, con la funzione di ospitare “infectos et suspectos de morbo et peste tempore pestilencie” (Archivio Comunale di Moncalieri, Ordinati, v. 2, 1482).

 

A seguito dell’aumento dei contagiati, le domuncule si rivelarono insufficienti per far fronte all’epidemia: venne così utilizzata una più ampia costruzione ceduta dai fratelli “de Picadonis”, di fatto non lontano dalle casupole già adibite a lazzaretto. I fratelli “de Picadonis” ebbero in cambio una casa “in quarterio Malanexie” (Archivio Comunale di Moncalieri, Serie generale, m. 1868, 1484). Dalle direttive formulate dal Magistrato di Sanità di Moncalieri, apprendiamo che una “cabana” venne costruita “nel passaggio di Moncalieri verso il passaggio di Cauoretto et discorso da detto passggio doi o tre trabuchi”.

 

Frammentarie notizie sui lazzaretti costruiti utilizzando edifici già esistenti in aree extramoenia, provengono anche da altri comuni. Per esempio, nel 1452, a Chivasso, a quell’uso venne adibita “ecclesia Montisiovis” situata lontana dal centro abitato (Archivio Comunale di Chivasso, Ordinati, v. 24, 21 gennaio 1452). Pochi anni dopo (1458) a Biella, venne attrezzata a Lazzaretto un’intera contrada detta “contratom Gamberani” (Archivio Comunale di Biella, Ordinati, v. 2. 4 dicembre 1458).

 

In alcuni casi i lazzaretti furono realizzati sfruttando le caratteristiche geomorfologiche di aree attigue ma isolate dal centro abitato. Per esempio, in Valle di Susa, venne utilizzato l’orrido di Foresto che per la sua naturale conformazione ben si adattava alle necessità di isolamento richieste per far fronte al morbo.

 

Va osservato che il lazzaretto non era la soluzione peggiore come spesso apprendiamo dalla storiografia del XIX secolo: infatti c’erano situazioni ben più drammatiche. Abbiamo notizia di malati chiusi nelle loro abitazioni, o peggio costretti a uscire dalla città: in entrambi i casi, al rifiuto degli interessati corrispondevano azioni repressive anche pesanti.

 

Per tale scopo erano istituiti degli appositi servizi di controllo. A Chieri, per esempio, ogni quartiere disponeva di un rappresentante incaricato di “recirchare infirmos” e quindi “ipsos espelli facero de Cherio” (Statuti civili del comune di Chieri, 1313).

 

Quasi certamente avvenne qualcosa del genere a Torino con la peste del 1484: l’anno successivo alcuni proprietari terrieri si rivolsero al consiglio comunale per ottenere un risarcimento per i danni arrecati da persone espulse sottrattesi ai lazzaretti.

 

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Articolo pubblicato il 18/03/2021