La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Amore tradito - Assassinio - Condanna a morte

In concomitanza del periodo natalizio del 1867, i torinesi trovano affissa agli angoli delle strade una sentenza di condanna a morte, che - secondo le disposizioni del Codice Penale al tempo in vigore - deve essere pubblicizzata a scopo deterrente.

La condanna è stata emessa in contumacia perché l’accusato, conscio della gravità del suo crimine, ha cercato di mettersi in salvo e, a quanto pare, vi è riuscito. Alcuni torinesi desiderosi di conoscere questa triste vicenda si rivolgono all’avvocato Matteo Bertone, che col nome de plume di Curzio, redige la Rivista dei Tribunali della Gazzetta Piemontese, e questi li accontenta.

Il suo lungo resoconto viene pubblicato nel quotidiano sabato 28 dicembre 1867 e, insolitamente, si prolunga anche alla successiva domenica, a riprova dell’interesse destato in città da questo truce episodio.

Sotto il titolo di “Amore tradito - Assassinio - Condanna a morte”, Curzio racconta che il condannato a morte è Giuseppe Pioletti di Corio e la sua vittima, originaria dello stesso paese, si chiama Maria Pioletti, senza esserne parente.

Giuseppe Pioletti è descritto come uomo laborioso, ma collerico, taciturno, pronto a menar le mani. Aveva sposato una bella e virtuosa ragazza di nome Casimira. Un matrimonio infelice: per quanto lei fosse di carattere piacevole, lui non l’amava e la vera causa della morte della donna, scrive Curzio «è tuttora coperta da un misterioso velo».

Rimasto vedovo, alla ricerca di una nuova moglie aveva iniziato a corteggiare Maria Pioletti, commessa in una panetteria. Curzio la descrive come una «giovane di svegliato ingegno, di umore scherzevole, d’apparenza buona e gentile, proclive agli affetti leggieri quanto all’amore appassionato e cieco».

Maria sapeva stare in negozio, col pane che vendeva ai clienti elargiva loro sorrisi e battute scherzose. Era molto graziosa e non le mancavano i corteggiatori. Ma lei desiderava un marito, non una relazione, e aveva accettato la proposta di matrimonio di Giuseppe.

I due sposi giravano, con poca fortuna, di villaggio in villaggio fabbricando il pane per venderlo poi alla spicciolata. Ma i loro affari andavano sempre peggio, tanto più che la famiglia aumentava ogni anno per la nascita di un nuovo figlio.

Maria, in un momento di disperazione, si è ricordata che uno dei suoi corteggiatori era disposto ad aiutarla economicamente. Lei ricorre a questo signore e ne riceve capitali e mezzi per rilevare due forni in Torino, uno in via della Basilica e l’altro in via della Misericordia.

Quando pare che siano tornati l’amore e la serenità domestica per la famiglia Pioletti entra in scena un giovane sergente dei bersaglieri. È Carlo Fiorio, educato, di bell’aspetto, espansivo, generoso: in breve conquista la simpatia dei coniugi Pioletti tanto da essere considerato come una persona di casa. In particolare, gli sono affezionati i giovani figli di Maria che scherzano e giocano con lui.  

Maria e Carlo diventano amanti: «la povera donna s’innamorò perdutamente dell’amico di casa da perdere con la vista, il senno, le convenienze, l’amore dei proprii figli, tutto!», per dirla con Curzio.

Con l’ingresso del bersagliere nella casa, se ne va la pace della famiglia.

Il militare si ammala e si mette a letto in una camera attigua all’abitazione dei Pioletti. Maria sul far della sera va a trovare il suo amico: «il marito, nella convinzione che gli ammalati non abbiano voglia di fare all’amore, non allargava d’avvantaggio gli occhi e lasciava correre».

Maria col malato è generosa di carezze, di riguardi e di danaro. E quando Carlo guarisce, poiché è senza lavoro, lei, malgrado le proteste del marito, gli procura un’occupazione presso i loro forni. E qui cominciano le dolenti note: il marito ingelosito si infuria. Vede che l’infedeltà della moglie fa diminuire i loro risparmi. Minaccia spesso la donna infedele, è pieno d’ira e di dispetto; vorrebbe separarsi dalla moglie traditrice, ma ne è ancora innamorato.  

Un giorno, Maria è al ristorante con una combriccola di amici, insieme al marito e al sergente. Le viene il capriccio di farlo bere nel suo bicchiere, così lo riempie e glielo offre. Non l’avesse mai fatto! Pioletti le strappa il bicchiere di mano e glielo tira in faccia mentre la insulta in modo infamante. Il sergente salta su come una furia per difenderla e chi sa che cosa sarebbe successo senza l’intervento rappacificatore degli amici.

A questo punto Pioletti intima a Carlo di non farsi più vedere a casa sua, minacciando di prenderlo a rivoltellate. Questi si adatta, tanto più che deve allontanarsi da Torino per motivi di lavoro. Così parte con l’accordo di tenersi in contatto epistolare con Maria alla quale scrive lettere su carta rosa e profumata, come se fosse una sua amica. Questa corrispondenza si protrae a lungo senza che il marito subodori la tresca. Ma finisce per accorgersene, quando sorprende la moglie mentre sigilla una lettera diretta al sergente, dove gli rinnova le sue dichiarazioni d’amore e gli spedisce del denaro.

Pioletti, sdegnato, inizia la causa di separazione, ma questa non si conclude perché il cognato e gli amici si prodigano per comporre le cose all’amichevole, indicandogli la triste condizione dei figli.

Pioletti continua così a convivere con Maria. Ma, cupo e pensieroso, le rivolge solo parole di scherno e disprezzo. È indignato e l’affetto di padre non è sempre basta a trattenerlo. Una sera, inviperito da una risposta insolente della moglie, impugna un coltello, le si avventa contro e le intima di uscire dalla casa dove, con i suoi colpevoli amori, ha portato infelicità e disperazione.

Maria si rifugia in casa di una sorella, che il giorno dopo riesce farla riaccogliere dal marito.

Forse le cose si potrebbero ancora accomodare, ma pochi giorni dopo il marito intercetta due lettere scritte da Maria e indirizzate all’innamorato e alla sorella. Contengono insinuazioni e menzogne contro di lui; inoltre Maria scrive alla sorella che i loro risparmi sono stati consumati non dal bersagliere ma dal marito con i suoi vizi.

Pioletti diventa furioso: all’offesa ricevuta vede aggiungersi infami calunnie.

Questo fatto lo induce a mettere in atto la vendetta che già da qualche tempo sta meditando.

Con Maria finge la massima tranquillità. Inizia a prelevare dai fondi di casa tutto quello che può, dicendo ironicamente che così la moglie può lamentarsi con ragione che lui consumi i risparmi.

Il 23 ottobre decide che è giunto il momento. Finge di essere tranquillo e sorridente, esce cantarellando di casa, dopo aver baciato i figli e salutato Maria che, poco dopo, mette a letto i bambini e, trascorsa un’ora, va a letto anche lei.

Pioletti si reca nel forno in via della Basilica. Quando esce, entra in una bottega di liquorista e poi ritorna al forno annesso alla sua abitazione in via della Misericordia.

Qui si mostra allegro in modo inusuale, si mette a scherzare con i garzoni e col fratello di sua moglie. Raccomanda ai garzoni di chiudere bene la piccola porta che dal forno dà accesso al suo alloggio: dice che mentre dorme non vuol esser disturbato dai rumori che di solito si fanno lavorando nel forno. Poi cantarellando sottovoce, s’avvia verso la sua camera da letto.

Chiuse le porte, i garzoni si mettono a commentare il suo strano comportamento poi criticano la padrona che al marito «fa portare in capo l’arma di Stupinigi», prontamente rimbrottati dal fratello di Maria che impone di finirla con questi discorsi.

Pioletti entra nella camera da letto dove la moglie e i figli stanno già dormendo. Trascorrono le ore e giunge la mezzanotte. Tutto è silenzio. Vegliano soltanto i fornai, cantando qualche stornello, ma ad un tratto sono interrotti da un rumore strano alternato a lunghi e cupi lamenti provenienti dalla camera vicina.

I fornai si fermano stupiti e vanno alla porta per ascoltare: continuano i dolenti e cupi lamenti.

Si consultano, poi decidono di aprire la porta. Appare Pioletti, furibondo e insanguinato.   

«Che cosa è mai accaduto?» domandano i garzoni.

«Nulla», risponde il Pioletti.

«E quei gemiti donde pervengono, di chi sono? Vogliamo entrare».

«Arrestatevi, ve lo impongo», soggiunge Pioletti, minaccioso.

«Abbiamo diritto e dovere di soccorrere chi geme in tal maniera».

Pioletti, per tutta risposta, chiude loro la porta in faccia e la sbarra dal di dentro, in modo che resiste alle spinte dei garzoni.

Il fratello di Maria sente un triste presentimento; ha indovinato che i gemiti sono di sua sorella: corre in cortile, guarda della finestra, ma le persiane gli impediscono di vedere. Ode il tonfo di un corpo che cade al suolo e sente anche aprirsi la porta dell’abitazione che dà in via Barbaroux e i passi di qualcuno che scappa. È Pioletti che fugge alla svelta.

Il fratello di Maria e gli altri fornai entrano da questa porta. Al fioco bagliore di un lumicino, scorgono sangue ancora fumante, sul pavimento, sulle pareti, sui mobili, sul letto, sul lettino dei bambini, sul volto di questi che, svegliati dal rumore, si fregano gli occhi spalmandoselo sulla faccia. Maria giace seminuda in un angolo della camera, ormai cadavere, immersa nel suo sangue che ancora sgorga da molte ampie ferite.

L’arma micidiale è un rasoio che Pioletti ha fatto affilare il giorno prima e che si trova aperto e tutto insanguinato.

Un secchiello di acqua rosseggiante e una camicia con alcuni abiti intrisi di sangue dimostrano che l’assassino si è cambiato prima di allontanarsi.

I fornai, inorriditi, non riescono più a muoversi e nemmeno a parlare. Nel profondo silenzio, ogni tanto si ode la vocina dei tre bambini: «Mamma, mamma; dov’è la mamma?».

Alla fine, i fornai si scuotono, si guardano in faccia, si commuovono e corrono ad avvertire la Questura. Accorrono le autorità e si constata sul cadavere di Maria un’ampia e profonda ferita alla mammella sinistra in direzione del cuore; un’altra, simile, dalla stessa parte più verso l’ascella, una terza molto ampia e profonda al collo, che le ha quasi staccato la testa. Come se non bastasse, viene accertato che Maria era incinta da otto mesi e si tenta invano di salvare il feto.

L’indignazione contro il barbaro assassino è al colmo.

Lo stesso Curzio che nel corso del suo racconto ha più volte mostrato una certa indulgenza per il marito tradito, innesta un altro registro: lo definisce «assassino, belva sotto forma umane».

Pioletti, uscito dalla casa della strage, corre al forno in via della Basilica dove si mostra tranquillo e sereno con suoi operai; prende il denaro e quanto gli capita fra le mani di più bello e di più buono poi fugge a Corio. Qui liquida alla svelta alcuni suoi affari e si dirige cautamente verso la Svizzera. Tutte le indagini dell’autorità giudiziaria italiana per catturarlo risultano inutili.

Viene processato in contumacia dalla Corte d’Assise di Torino che lo condanna a morte, come si è detto in esordio della nostra ricostruzione di questo datato e sfaccettato caso di femminicidio.  

Può essere interessante riportare l’invettiva all’assassino latitante che Curzio pone a conclusione della sua cronaca giudiziaria: «Pioletti, tu sei un uomo esecrato, aborrito e maledetto da tutti! Coll’esilio tu rendesti impotente la giustizia umana; ma deludere giammai potrai la giustizia divina e quella della tua coscienza. Non può in un’anima rea tacere il rimorso; egli ti sarà crudel compagno ovunque tu volgerai il passo. La memoria del tuo delitto ti aggraverà, ti opprimerà l’anima. Andrai in luoghi deserti, e la solitudine ti spaventerà.

L’infelice Maria ancor grondante di fresco sangue, e l’innocente frutto delle viscere sue, avrai sempre dinanzi gli occhi; e quel sangue ti cadrà goccia a goccia sul cuor tuo e te lo strazierà crudelmente. Un grido incessante e non mai interrotto sorgerà dal profondo dell’anima tua e ti riempirà di spavento. Sia che vegli, sia che pensi, sia che sogni, in ogni dove, vedrai scritto vendetta! Morrai di lenta morte, esule, ramingo, privo di ogni conforto, trascinerai nel dolore e nello squallore i giorni tuoi, e resterai sulla terra documento memorabile di una vita esecrata!».

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Articolo pubblicato il 28/12/2021