La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

La cantina dell’orrore

Rievochiamo un atroce caso di cronaca nera avvenuto in un tempo relativamente recente. Siamo in via Maria Ausiliatrice, al civico 50, nell’ultimo isolato della via prospicente al corso Principe Oddone, nel lato che fa angolo con via Biella. Qualche cronista parlerà correttamente di quartiere Valdocco, altri più sbrigativamente della “zona di Porta Palazzo”.

Qui, nella mattina di domenica 25 gennaio 1998 vengono trovati nelle cantine i resti martoriati del corpo di un uomo bianco, sui trent’anni, semi carbonizzato, morto da una settimana o poco meno.

Inizialmente si parla della macabra scoperta fatta da un condomino che scende in cantina per mettere in ordine il suo locale, sente un puzzo insopportabile, va a curiosare in un angusto spazio dove - a detta dei casigliani - nessuno va mai a guardare: tra cartacce e rifiuti vede spuntare un fagotto che si rivela un cadavere. In seguito, si parlerà di una prima scoperta fatta dalla moglie di un inquilino che, nella penombra dell’angusto corridoio, scorge una pozza di sangue con qualcosa che sta ancora bruciando. Comunque sia, vengono avvertiti i Carabinieri che condurranno l’intera indagine. Sul cadavere semicarbonizzato, squartato, evirato e depezzato, lavora a lungo la loro squadra scientifica, che esegue rilievi in tutta la cantina.

Già a fine gennaio si identifica il morto: Vito Michele Milani, di 39 anni, da Bitonto, pregiudicato con precedenti penali per atti osceni e modesti reati contro il patrimonio. Era solito abbandonare i familiari e vagabondare al Nord, dove si prostituiva per campare. Aveva vissuto per vari anni all’estero, in Inghilterra, Germania, Francia. Nel dicembre del 1997 era partito dalla Puglia con pochi soldi, aveva girovagato, povero e senza amici, fino all’arrivo a Torino, avvenuto ai primi di gennaio, quando Milani ha dimenticato la sua carta d’identità sul tavolino di un bar del centro. Dopo l’identificazione, gli inquirenti stentano a collegare Milani con la cantina di via Maria Ausiliatrice: non conoscono le sue amicizie torinesi e, per mancanza di confidenti, le indagini risultano molto difficili. Al 4 febbraio, sotto l’eloquente titolo Delitto in cantina rimane il mistero, i Carabinieri fanno pubblicare una foto di Milani con un appello alla collaborazione da parte di chi lo avesse conosciuto in Torino.

Nella cantina, il povero Milani, prima di essere strangolato, è stato torturato a lungo. Sui suoi polsi si notano solchi profondi: è stato legato, poi con ferocia inaudita il suo carnefice lo ha evirato quando era ancora vivo. Successivamente l’ha strangolato, gli ha amputato le gambe, ha eviscerato e scuoiato il tronco, gli ha infilato i genitali in bocca, mutilazione che, secondo gli inquirenti, assume il significato di una vendetta di tipo sessuale. Infine, l’ha sventrato e gli ha riempito l’addome con stracci e stoffe. Lo squartamento appare come un lavoro eseguito in modo approssimativo con un coltellaccio, mentre sui genitali è stato compiuto a regola d’arte.

Dopo lo scempio, il corpo è stato lasciato col ventre riempito di stracci in cantina, così esternamente si è ben conservato. Il cattivo odore della putrefazione interna ha indotto il ricorso alla benzina per bruciarlo, a quanto pare nella notte fra sabato e domenica 25 gennaio che sarà indicata come la data dell’orrendo crimine. Lo scempio operato sul corpo non viene mai esattamente chiarito nelle varie cronache giornalistiche: si conoscerà soltanto al processo, in particolare grazie alle dichiarazioni dei periti. Questa “reticenza” dei cronisti - probabilmente predisposta dagli inquirenti - si rivelerà utile nel prosieguo delle indagini.

I sospetti si sono subito concentrati sugli inquilini del palazzo: il portone è sempre chiuso a chiave, anche la porta di accesso alle cantine è sempre sbarrata e, per disposizione dell’amministratore, le chiavi sono in possesso soltanto di una ventina di condomini.

Nel palazzo si svolgono lunghi interrogatori. Questa inchiesta si protrae nel tempo e trova il suo supporto principale nelle analisi di laboratorio.

Ai primi di aprile i giornali annunciano che le indagini seguono una pista di ambiente omosessuale su cui gli inquirenti manifestano un certo ottimismo. A metà aprile si precisa che il delitto sarebbe avvenuto nell’appartamento di un anziano inquilino omosessuale che però appare poco disposto a collaborare.

La svolta si ha il 18 luglio quando La Stampa annuncia che «Ad ucciderlo [Milani, N.d.A.] sarebbe stato un inquilino del palazzo, Giuseppe Gillone, 69 anni, ex sarto in pensione. Forse un gioco erotico tra omosessuali, forse qualche altro movente ancora oscuro. I Carabinieri del Nucleo Operativo di via Valfrè hanno bussato alla sua porta ieri mattina alle 7. Il tempo di prendere qualche vestito e lo hanno accompagnato al repartino detenuti delle Molinette, arrestato con l’accusa di omicidio aggravato. Lui nega tutto, «anche l’evidenza» dicono gli inquirenti. Ma le prove raccolte lasciano pochi dubbi. Un omicidio maturato nell’ambito di una relazione omosessuale tra la vittima e il suo carnefice. Come sia andata e cosa sia successo potrà dirlo soltanto Gillone confessando».

Giuseppe Gillone, ex sarto ed ex operaio Iveco, abita al terzo piano del palazzo, dove i vicini descrivono un viavai di uomini. Sposato, con tre figli, il pensionato va in cerca di rapporti occasionali, adescando uomini nei parchi, alla stazione, nei cinema a luci rosse. In uno di questi avrebbe conosciuto Milani. Quando questi ha dimenticato in un bar la sua carta di identità, è apparso elegante e impeccabile. Da chi gli vengono i soldi? Forse da Gillone?

Nell’alloggio del pensionato si trovano cassette e materiale pornografico gay. Lui però nega tutto, la sua omosessualità e persino di conoscere Milani, riconosciuto dai coinquilini.

Dopo la scoperta dell’omicidio, Gillone ha contattato un operaio per disinfettare il corridoio degli scantinati e la sua cantina. Ha detto di essere stato delegato dagli altri inquilini, ma non era vero. Nell’alloggio sono trovate anche due compromettenti foto: una dell’operaio che disinfettava il corridoio e una seconda del parroco che benediceva la cantina.

Questo operaio riferisce agli inquirenti una conversazione con Gillone, significativa per le indagini: il pensionato gli ha riferito che il cadavere aveva i genitali in bocca, particolare noto soltanto all’assassino. Ha poi aggiunto che era sessualmente molto dotato, dimostrando di conoscere particolari anatomici intimi del povero Milani.

Come già detto, secondo i medici legali lo scempio del suo corpo era stato eseguito in modo sbrigativo, mentre sui genitali l’operazione era stata condotta secondo le regole. Nell’alloggio sono trovati due libri, un Atlante di Anatomia Umana e La vita sessuale, che tra le loro pagine contengono segnalibri in corrispondenza di due immagini agghiaccianti: il sezionamento e completa apertura del pene. Milani, ancora vivo, è stato sottoposto proprio a questa tortura!

Altro elemento scoperto nell’alloggio del pensionato è una macchina per inalazioni che lui utilizza spesso perché sofferente da tempo di enfisema polmonare. Un tubicino in plastica di questo aerosol è stato trovato nella cantina, in vicinanza del cadavere.

Infine, una prova decisiva viene dagli esami sui campioni prelevati dal pavimento e dai mobili della cantina di Gillone: malgrado la disinfezione, i Carabinieri del CIS di Parma, sotto la guida del maggiore Luciano Garofano, sono riusciti a trovare tracce del sangue di Milani, riconosciuto grazie all’esame del Dna. È stato trovato anche un martello sporco di sangue usato per spaccare le ossa.

Così, al mattino di venerdì 17 luglio, è scattato l’arresto operato dai carabinieri del Reparto Operativo, certo motivato da un imponente apparato di prove. Ma resta un dubbio, formulato dallo stesso cronista de La Stampa: Gillone ha davvero fatto tutto da solo?

Da parte sua, l’arrestato persiste nella negativa assoluta, insistendo sulle sue precarie condizioni di salute: «Sono un vecchio malato, crede che avrei potuto fare le cose di cui mi accusano?».

Anche il suo difensore sottolinea questo elemento e gli inquirenti non trascurano l’eventualità di un complice.

L’anno seguente, al 10 luglio, Gillone viene rinviato a giudizio dal Giudice per le indagini preliminari. Quello che viene indicato come il «presunto squartatore di Porta Palazzo», da un anno è ricoverato in una casa di cura a San Maurizio Canavese, agli arresti domiciliari.

Il processo inizia il 15 febbraio 2000 alla Corte d’Assise di Torino. È indiziario, l’imputato è un pensionato di 71 anni, carico di acciacchi, che non si presenta in aula e che continua a negare tutto.

Si ipotizzano giochi erotici degenerati, perversioni sessuali, ma i dubbi sono tanti, l’ombra di un complice volteggia su questa storia allucinante, anche l’avvocato di Parte Civile ne ipotizza la presenza in cantina. Quando è la volta del medico legale Roberto Testi, questi fa l’importante affermazione che l’omicidio può essere stato eseguito da una persona anziana.

Dopo una perizia psichiatrica che riconosce l’imputato sano di mente, il Pubblico Ministero chiede 19 anni per omicidio volontario. L’avvocato difensore esclude l’omicidio volontario, ritiene più percorribile l’ipotesi di malore improvviso, di un gioco erotico finito in tragedia e insiste sull’affermazione che le indagini siano state condotte a senso unico.

Il 16 marzo 2000, in apertura di udienza viene letta una lettera dell’imputato che ammette alcune sue bugie: ha negato l’omosessualità per vergogna davanti ai figli. È un fatto che Gillone negando anche l’evidenza abbia peggiorato la sua situazione. Questa incompleta e tardiva ammissione delle sue bugie non pare giovargli. Mentre è sempre assente, viene condannato a 20 anni di carcere. I difensori annunciano il ricorso in Appello.

Qui, il 30 gennaio 2001, la pena è ridotta da 20 a 14 anni. Gillone è sempre in casa di cura a San Maurizio Canavese. Evidentemente ha prevalso l’idea di un tragico gioco erotico, non di un omicidio volontario. Il 28 marzo Gillone, condannato in via definitiva a 14 anni, viene arrestato e portato al carcere delle Vallette. I difensori hanno chiesto la detenzione domiciliare oppure ospedaliera.

Non disponiamo di ulteriori notizie del condannato, anche se questa vicenda è ben documentata da pubblicazioni e dalla rete. Spesso è citato un articolo di Gianluigi Nuzzi, apparso su Specchio de La Stampa, il 19 agosto 2021. Sono soprattutto evidenziati i rassicuranti aspetti “scientifici”, come nel caso di Delitti imperfetti di Luciano Garofano (Tropea, Milano, 2004, a cura di Fabrizio Rizzi).

Ma nessuna analisi di laboratorio, per quanto sofisticata, può definire il reale ruolo assunto nella truce vicenda dall’anziano pensionato carico di acciacchi.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 09/06/2022