Le conseguenze dell'aborto sulla psiche della donna

Valutazioni effettuate dalla dottoressa Cinzia Baccaglini, psicologa clinica e psicoterapeuta.

Una settimana fa, in vista della Festa Internazionale della Donna, abbiamo affrontato il fenomeno dell’aborto e del fatto che questo, spesso, viene caldamente consigliato quando non addirittura imposto.

L’argomento ha suscitato parecchio dibattito sui social network, specialmente su Facebook, dove le solite femministe hanno preso la palla al balzo per attaccare chi è contrario all’aborto e lo è su basi scientifiche.

A noi di “Civico 20 News” piace affrontare le tematiche in modo approfondito e completo ed è per questo che abbiamo deciso di tornare sul tema per parlare delle tremende conseguenze psichiche dell’aborto sulla donna.

Per fare ciò abbiamo deciso di riportare l’autorevole giudizio della dottoressa Cinzia Baccaglini, psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta con specializzazione sistemico-relazionale, baccalaureata di Teologia.

Secondo la dottoressa Baccaglini, conseguentemente all’interruzione volontaria di gravidanza, possono venirsi a creare tre differenti quadri clinici.

La prima realtà, anche per numero di casi riscontrati, è quella della psicosi post-aborto che si manifesta come uno “scollamento dalla realtà di natura psichiatrica che si sviluppa immediatamente dopo l’aborto e può durare oltre i 6 mesi”.

La seconda situazione da prendere in esame è certamente quella del Disturbo da stress post-aborto (PTSD) che “si sviluppa a partire dai 3 ai 6 mesi dopo l’aborto e presenta i sintomi tipici dei reduci del Vietnam: risvegli notturni, incubi, tachicardia, aumento dell’ansia, allucinazioni olfattive, uditive, visive, pensieri e immagini intrusive (flashback), irritabilità o scoppi di collera, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, somatizzazioni”.

Quella decisamente più invasiva e invalidante è la Sindrome post-aborto (PAS) che “può insorgere sia subito dopo l’evento aborto ma anche a distanza di anni, persino decenni, con incapacità di provare emozioni, distacco dagli affetti, disturbi della comunicazione, disturbi del pensiero, disturbi dell’alimentazione, disturbi della sfera sessuale, disturbi neurovegetativi, disturbi fobici, disturbi d’ansia, depressione, pensieri suicidari, tentativi di suicidio, disturbi del sonno, inizio o aumento di consumo di sostanze stupefacenti, alcol o psicofarmaci”.

Queste condizioni cliniche sono assolutamente da tenere presenti soprattutto se si considera che, come ha ben spiegato la psicologa, possono portare addirittura al suicidio e, dunque, alla morte.

Le donne che si rivolgono ad un consultorio o ad un centro regionale per la pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sono messe al corrente di queste possibili implicazioni, oppure, vengono semplicemente sottoposte all’intervento per l’uccisione del feto?

La dottoressa Baccaglini, da anni impegnata nella professione, a questa domanda ha così risposto: “Dalla mia attività clinica non risulta abbiano né informazioni sulle conseguenze fisiche né su quelle psicologiche. Di norma firmano un consenso informato generico, che attesta che sono state fornite loro le informazioni di cui all’articolo 2 e all’articolo 5 della Legge 194/1978 sull’aborto. Non risulta nemmeno che si spieghi loro in cosa consista concretamente il tipo di aborto cui si sottoporranno, le modalità operative o dove andranno a finire i propri figli a seconda dell’epoca gestazionale”.

Questa narrazione lascia davvero molti dubbi e perplessità soprattutto se si considera come la Legge 194/1978 sia stata voluta, sponsorizzata e desiderata da Emma Bonino e dal “Partito Radicale” come forma – a loro detta – di necessaria autodeterminazione della donna e del suo corpo.

Quando tutto ciò accade in strutture pubbliche, assoggettate alle norme del Servizio Sanitario Nazionale, questo è ancora più grave visto che lo Stato ha il dovere e l’obbligo di presentare alla paziente – dopo adeguata ed esaustiva spiegazione – un modulo per il consenso informato.

La dottoressa Baccaglini, forte della sua pluriennale esperienza clinica, però, afferma: “sono molte le donne che successivamente mi chiedono ‘Perché non mi hanno detto che sarei stata così male?’, ‘Perché non mi hanno informata prima su cosa mi avrebbero fatto e come me lo avrebbero fatto?”.

Sicuramente sul valore della vita c’è ancora molto da lavorare e la formazione del personale sanitario che opera in contesti di questo genere andrebbe seguita, valutata e monitorata con periodicità al fine di evitare simili situazioni che – se trascurate – possono avere dei risvolti tutt’altro che piacevoli.

Torneremo senz’altro sul tema nella speranza di poter riportare una narrazione differente e meno tragica.

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Articolo pubblicato il 14/03/2023