La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Omicidio e tentato suicidio, su una colonna di giornale

Il 14 aprile 1941 è Lunedì di Pasquetta. L’Italia è in guerra dal 10 giugno 1940 e i giornali cittadini di quel giorno hanno dato ottime notizie: «Una giornata nerissima per gli inglesi - Balcani: i tedeschi a Belgrado - Cirenaica: Bardìa occupata - Atlantico: 17 navi affondate», titola La Stampa e sulla Gazzetta del Popolo si legge «La vittoriosa Pasqua dell’Asse - Belgrado è caduta - Tobruk assediata e Bardia occupata - Strage di naviglio nell’Atlantico».

La nostra attenzione si sposta ora sulla casa di via Porta Palatina 2, all’angolo con via Garibaldi, dove la proprietaria, signora Binello, affitta una stanza ammobiliata ad Antonio Dolza, di 27 anni, operaio alla Villar Perosa, che vi convive con una donna di 36 anni, Elsa Colebo, la sua amante secondo la terminologia dell’epoca.

Nella sera di lunedì, verso le 21:00, la signora Binello si accorge che nella stanza del Dolza la luce è ancora accesa ed entra per provvedere all’oscuramento. In tempo di guerra, è imposto il mascheramento dell’illuminazione notturna, per proteggere le città dagli attacchi aerei.

La donna trova Dolza che giace a terra, in fin di vita. Viene chiamato il medico municipale che ordina di trasportare Dolza, sotto effetto di un sonnifero, il Veronal, all’Ospedale delle Molinette. Frattanto viene aperto l’armadio a muro della stanza e avviene così la raccapricciante scoperta del cadavere di Elsa Colebo, la convivente di Dolza, strangolata.

Giungono il dottor Caponetto, responsabile del Commissariato di P. S. Moncenisio, e il dottor Dilena, Sostituto Procuratore del Re, che iniziano le indagini.

Dolza, ricoverato in stato d’arresto alle Molinette, ha strangolato la donna, poi ha tentato di calmare il suo turbamento, sciogliendo qualche pastiglia di Veronal in un bicchiere d’acqua, esagerando nella dose, tanto da essere in pericolo di morte. Dopo aver ingerito il Veronal, si è messo a scrivere un biglietto che gli inquirenti esaminano. È uno scritto scombiccherato che vorrebbe essere una confessione e nello stesso tempo una giustificazione dell’assassino. Ma non dice il preciso motivo del delitto: Dolza accenna all’amante, caduta in uno stato di aberrazione, la definisce una disgraziata e sostiene che per... salvarla non c’era altro mezzo che ucciderla.

Gli inquirenti sospettano che il movente sia la gelosia.

A questo proposito, la Binello, padrona di casa, dice che i due litigavano di continuo, ma lei non ne conosce il motivo.

Dolza è noto alla Questura come pregiudicato per truffa, elemento non significativo, come non emergono indicazioni dall’autopsia della vittima.

Il mistero potrà essere chiarito, quando l’omicida potrà parlare. Le sue condizioni sono stazionarie, è in coma per il sonnifero ingerito, ma i medici delle Molinette assicurano che presto potrà riaversi.

In effetti, già nel pomeriggio di martedì 15 aprile le condizioni di Dolza sono leggermente migliorate e lui racconta al maresciallo Ferro, del Commissariato Moncenisio, come, in un attimo di follia, è arrivato all’omicidio. Il movente è stato la gelosia. Da qualche tempo, Dolza conviveva con la Colebo. Fra loro erano continui i litigi dovuti - come racconta Dolza - a una gelosia, a quanto pare, reciproca. La donna sospettava che Dolza le nascondesse un’altra relazione con una compagna di lavoro e lui le rimproverava di essere troppo gentile con un operaio che lavorava con lui e che lui stesso le aveva presentato.

La tragedia si è svolta improvvisa. Dopo uno dei soliti violenti litigi, la donna si è gettata supina sul letto, singhiozzando. In un momento di aberrazione, lui l’ha presa per il collo. L’ha stretta finché non ha sentito più dibattersi il suo corpo. In preda al terrore, per non avere il cadavere davanti agli occhi, lo ha chiuso nell’armadio a muro.

Tutto chiaro? In verità, la Gazzetta del Popolo riporta una versione un po’ diversa: l’ultimo litigio fra i due è iniziato sabato mattina; nel pomeriggio Dolza non è andato al lavoro ed è stato tutto il giorno con l’amante, prolungando la scenata. Verso le 19:00, Dolza è sceso per recarsi in farmacia ad acquistare il Veronal, sonnifero che la Colebo era solita assumere. Tornato a casa, ha consegnato la medicina alla donna e, quando questa si è assopita, lui l’ha strangolata e poi ha occultato il cadavere nell’armadio. Ha preso il sonnifero a sua volta ed è rimasto addormentato fino a lunedì sera, quando è stato portato in ospedale.

Due versioni dello stesso episodio? Le indagini sull’omicidio sono affidate non alla Questura, ma al Commissariato Moncenisio, ed è poco probabile che il suo responsabile, il dottor Caponetto, si sia preoccupato di fornire un comunicato stampa ai cronisti. Le informazioni su questo caso sono confinate in stringate notizie con titoli depotenziati su una sola colonna. Il 1941 è il XIX anno dell’Era Fascista, si è consolidata la volontà del regime di contenere le notizie di cronaca nera, soprattutto di quelle truculente. Così le notizie giornalistiche ci appaiono fredde, distaccate, essenziali: nessun dubbio sui risultati delle indagini e nessuna simpatia per l’accusato. E anche qualche discrepanza nella ricostruzione del fattaccio...

Queste regole giornalistiche sono chiarite dall’articolo di Stampa Sera del 16 aprile 1941: «La confessione fatta ieri dall’omicida ha confermato, se ve ne fosse stato bisogno, la sua colpevolezza ed ha gettato una sinistra luce sulla vita dei due sciagurati amanti. Nulla di nuovo è da essa risultato, neppure sul movente. Si tratta di uno di quei drammi che sembravano orami banditi della odierna società, e sui quali è bene stendere un velo acciocché il pubblico non veda l’ammasso di brutture, il losco ambiente in cui si è sviluppato ed è maturato il delitto». Apprendiamo anche che l’omicida è piantonato in ospedale in attesa di essere tradotto in carcere: le sue condizioni stanno migliorando ed entro due o tre giorni sarà dimesso per finire in prigione.

Antonio Dolza viene processato in Corte d’Assise a Torino il 7 ottobre 1941, difeso dall’avvocato Torchio. A quanto pare, in istruttoria, l’uomo ha dichiarato che non aveva intenzione di uccidere Elsa quando l’ha presa per il collo, dopo un violento diverbio scatenato dalla gelosia della donna. Anche al processo sostiene questa versione che porterebbe a un omicidio preterintenzionale. Viene invece condannato per omicidio volontario a 22 anni di reclusione, ai quali si devono aggiungere sei mesi di carcere per contravvenzione all’ammonizione.

A qualcuno che abitava nella stessa via, al civico 12, il meccanico Pietro Galeazzo, il quale nella seconda metà dell’ottobre 1934, aveva ucciso la moglie e il figlio neonato seppellendoli poi in cantina, era andata peggio: condannato a morte, era stato fucilato il 1° maggio 1936 alla vecchia Polveriera di Stura!

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Articolo pubblicato il 08/09/2023