La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Ida Riccio: strangolata o stroncata da overdose?

Il 17 giugno 1988, alle 12:30, Rocco Cellino, socio della Bocciofila San Salvario entra con l’auto nel parcheggio della società sportiva, in corso Sicilia 2, nei pressi del ponte Isabella, per una partita con gli amici. Vede qualcosa di bianco nell’erba al fondo del parcheggio, sotto un pioppo. Scorge subito un piede, si avvicina e intravede un corpo di donna sotto le frasche. Corre al bar e chiama il 112 dei Carabinieri. Indagano i militari del Nucleo Operativo, che trovano il corpo di una ragazza supina, col braccio sinistro sotto il corpo e quello destro proteso in avanti. La maglietta nera è arrotolata sopra i seni, la gonna quasi sfilata, un collant scuro e gli slip azzurri all’altezza del collo. Mancano le scarpe. Erba e rami strappati mostrano un tentativo di occultare il corpo.

Il barista, che svolge anche mansioni di custode, spiega che fino a mezzanotte c’è stata gente poi sono state spente le luci. Il cancello è rimasto aperto, cosa che avviene spesso, perché lui ha timore ad andarlo a chiudere: più di una volta, ha trovato tossicodipendenti e prostitute nella zona più buia.

Il riconoscimento della vittima è particolarmente veloce. Uno dei molti curiosi, assiepati intorno al cadavere, dice «Forse conosco la ragazza. Pare quella che batte in corso Dante angolo via Ormea, vicino a casa mia». I Carabinieri vanno così in via Ormea 124, dove, al terzo piano, su una porta è scritto con nastro adesivo rosso «I. Riccio». Bussano, nessuno apre, ma entrano in scena i vicini di stanza che forniscono la certezza dell’identificazione della morta: Ida Riccio, prostituta di 31 anni, tossicodipendente, madre di due figli.

Il caso di Ida Riccio si colloca in un particolare periodo della nostra città, dove, dall’inizio dell’anno, ci sono già stati otto omicidi, alcuni clamorosi e ancora senza soluzione, come quello di Giorgia Padoan (9 febbraio) e la triplice uccisione, davanti a una birreria, dei fratelli Roberto e Maurizio Caserta e di una loro giovanissima amica, avvenuto l’11 giugno, a brevissima distanza di tempo.

Ida è nata a Salerno nel gennaio del 1957. Fin dai 10 anni ha iniziato a scappare di casa, ancor prima dei 14 anni a prostituirsi, a 15 è stata denunciata per porto di un coltello di tipo proibito e, in seguito, per una lunga serie di reati: furto, ricettazione, spaccio di stupefacenti. Fa la spola fra Salerno e il Piemonte, e, nel 1973, a Torino, è stata sorpresa dalla Polizia mentre batteva in via San Francesco d’Assisi: era fuggita dal Buon Pastore di Villanova.

Nel 1974 ha sposato Luciano Memoli e sono nati due figli, un maschio, di 14 anni, e una femmina, di 7. Il matrimonio non ha cambiato la sua vita: nel luglio del 1985 il marito è arrestato per possesso di un etto di eroina. Ida è andata ad abitare nel 1986 nella misera stanza di via Ormea (4 metri per 4, un letto matrimoniale, un vecchio comò, un fornello a gas a due fuochi con la bombola) per stare vicina ai figli che vivono in via Petitti 45 con i suoi genitori, il padre Alfonso, di 67 anni, pensionato statale, e la madre Maria, bidella al Liceo Alfieri. La vita di Ida è sconvolta dall’eroina: si pratica quattro buchi al giorno, per un costo di almeno 200- 250 mila lire quotidiane, che si procura con la prostituzione. Il padre racconta ai cronisti che non era capace di bucarsi e le iniezioni al braccio gliele doveva fare qualcun altro. Sempre secondo il padre, per un po’ ha smesso di prostituirsi, ma è tornata sulla strada, due settimane prima quando il marito Luciano Memoli, di 30 anni, è stato arrestato per favoreggiamento: nella notte tra il 30 e il 31 maggio 1988 si è presentato al Pronto Soccorso del Mauriziano con la gamba sinistra trapassata da un proiettile di pistola, ferita guaribile in 10 giorni. Sostiene che lo hanno ferito degli sconosciuti in corso Cairoli, vicino al Monumento di Garibaldi. In Questura pensano a un regolamento di conti, lui non vuole fare nomi e così lo arrestano per favoreggiamento.

Il padre di Ida ha cercato in ogni modo di rimetterla sulla giusta strada. Parla di amici balordi che non le hanno permesso di uscire dal giro. Dice di lei: «Era una brava ragazza, affettuosa con noi ed i suoi bambini; veniva a trovarli più volte al giorno, per lei erano tutto» e sostiene che aveva più volte tentato di disintossicarsi, negli ultimi mesi aveva frequentato il centro del Mauriziano. È un uomo dignitoso travolto dalle avversità, un altro figlio è in carcere a Salerno e ha chiesto di partecipare al funerale della sorella.

Facciamo conoscenza dei vicini di stanza di Ida: sono Anna Angela Iarrera, di 27 anni, prostituta con precedenti per spaccio e Roberto Bolognino, 27 anni, ladruncolo e topo d’auto, tossicodipendenti che convivono nella vicina soffitta, anche se ufficialmente residenti altrove. Ai due, e a Ida, le soffitte sono subaffittate da Gabriele Droetto, pittore e decoratore di 41 anni, anche lui tossicodipendente. Il terzetto fa un racconto, confuso e con particolari non sempre concordi: nella notte tra giovedì e venerdì 17 giugno, verso le 2:30, hanno sentito gemiti e lamenti provenienti dalla soffitta di Ida e hanno bussato. Ha aperto un giovane sconosciuto, forse nemmeno trentenne, l’ultimo cliente abbordato in corso Dante, il quale ha detto che Ida, riversa nuda sul letto, stava male. Loro l’hanno rivestita in modo sommario e lui se l’è caricata in spalle, l’ha portata in strada dove l’ha caricata su una 500 rossa, o aragosta, dicendo che voleva portarla al Pronto Soccorso. È stato quasi certamente questo giovane ad abbandonare il cadavere in corso Sicilia 2, a nemmeno 400 metri in linea d’aria da via Ormea, gettandolo, dice il padre di Ida, «come un sacco dell’immondizia».

Questo racconto, emerso dopo un lunghissimo interrogatorio, non convince i Carabinieri del Nucleo Operativo. Il sostituto Procuratore Vitari ordina l’arresto dei tre nell’ipotesi che si siano accorti della morte (di qui l’accusa di occultamento di cadavere) e che non abbiano detto tutto quel che sapevano perché conoscevano il cliente (accusa di favoreggiamento).

Al Nucleo Operativo si esclude che vi siano relazioni tra la morte e il misterioso ferimento del marito. Il terzetto delle soffitte di via Ormea ha evocato questo giovane con la 500 rossa che non sarà mai trovato. Non lo conoscono le amiche della vittima, interrogate dai Carabinieri. Al 112 giungono centinaia di inutili segnalazioni di 500 sospette.

Si cita, dopo qualche giorno, un altro oscuro personaggio: il protettore di Ida, sparito dalla circolazione. Viene descritto dai vicini come un uomo sulla quarantina, di corporatura massiccia, con baffi neri, notato a bordo di una 131 chiara, e anche su una 500, come si dice inizialmente, per poi parlare di vetture di potente cilindrata con targhe di altre province, forse realmente viste o forse evocate dallo stereotipo del magnaccia. Si ipotizza anche che fosse il suo fornitore abituale di eroina. La sua testimonianza potrebbe risultare utile per gli investigatori: forse ha rilevato la targa della 500 rossa. Spiegherebbe anche i ripetuti litigi di Ida, uditi da vicini di casa, quando, di notte con la Iarrera, urlava insulti contro una persona. Con chi litigavano? È tornato per vendicarsi?

Come è morta Ida, stroncata da overdose o forse strangolata, magari in un gioco erotico? Sulle braccia vi sono segni di iniezioni e sul collo vistose ecchimosi. Si tratta di un omicidio oppure del reato, meno grave, di occultamento di cadavere, magari con omissione di soccorso?

L’autopsia non dà la certezza della morte per strangolamento. I segni sul collo lasciano presumere una morte violenta. Si attende un responso definitivo, che non comparirà sui giornali.

Il 21 giugno, nella Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, si svolge il funerale, cui partecipa anche il marito arrestato. Non ci saranno più articoli sulle indagini di questo caso. I tre arrestati sono messi in libertà provvisoria venerdì 1° luglio. Il giovane della 500 rossa e il protettore con auto di grossa cilindrata - ammesso che esistessero - non vengono trovati.

Il nome di Ida Riccio inizia a essere citato fra i tanti casi insoluti. Si uniscono notizie che dimostrano quanto sia difficile uscire dalle spire della droga. Tra febbraio e marzo del 1991, è annunciato l’arresto del marito per spaccio di stupefacenti, benché la morte della moglie paresse averlo cambiato. La soffitta di via Ormea diventa una centrale di smercio di stupefacenti, gestita dal pittore Gabriele Droetto, che utilizza spacciatori extracomunitari: un vero supermarket della droga, come scrive La Stampa del 10 maggio 1993.

Si tratta di una brutta storia che lascia un senso di impotenza, per le difficoltà di indagare in ambienti dominati dall’omertà, e di una certa sfiducia nei confronti delle istituzioni che, in questo caso, hanno lasciato nel vago la causa della morte. Ma è una storia che fa comunque parte del passato prossimo della nostra città e che, parlando di “Torino noir”, sarebbe ingiusto omettere o dimenticare.

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Articolo pubblicato il 22/09/2023