L’oratorio salesiano Michele Rua e diapositive di un percorso educativo da rivendicare con nostalgica consapevolezza
l'oratorio e l'ingresso alla parrocchia in quegli anni 60,, visto dall'ingresso di via Paisiello

Baby gang, stupri e omicidi per mano minorenni, che succede ai giovani senza un faro e senza Dio?

Anni 60, a Torino, per noi monelli della barriera di Milano, l’oratorio salesiano Michele Rua e la parrocchia di San Domenico Savio erano un punto di riferimento dove trovava applicazione l’insegnamento di San Giovanni Bosco, fondatore delle congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

A distanza di tanti anni, per chi è stato adolescente in quei tempi di poche cose materiali e tanta vitalità, viene spontaneo ricordare i luoghi e il metodo pedagogico di Don Bosco, sacerdote e timoniere  di vite in cerca della giusta rotta, che ha dedicato la sua vita ai giovani, con un occhio al futuro, all'interiorità, all'appartenenza, al mondo del lavoro.

A quel tempo ne sapevamo poco del “Sistema della prevenzione” che accomunava i giovani delle periferie di un’Italia ancora in cerca di se stessa. Era una filosofia educativa basata su tre semplici, sintetiche parole: ragione, religione e amorevolezza, e in effetti, noi si andava all’oratorio per giocare, per studiare e anche per ringraziare il Creatore; pratica che non fece mai del male.

Il termine “oratorio” deriva dal latino “orare”, che significa pregare, ma per noi era soprattutto il “Mìche” e ricordando un bicchiere ben più che mezzo pieno, all’oratorio ci si  trovava in un ambiente familiare dove il ping pong, il biliardo e il biliardino erano alcuni dei giochi da tavolo che facevano aggregazione, ma non solo, chi lo desiderava poteva imparare musica, oppure ginnastica artistica, ma soprattutto si giocava a pallone in un campo affollato che ha visto nascere campioni.

Queste e poche altre tantissime cose per gli allievi della scuola salesiana. Oltre le mura del Michele Rua c’era la terra di nessuno, un deserto di infrastrutture ancora tutte da inventare. Unico difetto di allora: al Mìche non c’erano classi miste e a quell’età, quando l’istinto era in maggioranza naturale, la mancanza di qualche ragazza si faceva sentire. L’impegno mistico imponeva di essere puntuali alla messa del mattino, prima di iniziare la scuola, e poi, qualche confessione dove spesso si mentiva, e una preghiera dopo le 18, al termine del doposcuola, prima di tornare a casa.

Non ricordo bestemmie né volgarità nel nostro linguaggio giovanile, anzi, era una vergogna, ma sapevamo spiegarci lo stesso e come farci rispettare. Qualche scazzottata tra noi era cosa normale e i genitori non indagavano più di tanto per un occhio nero, anzi, era quasi un buon segno di evoluzione nel processo autoeducativo. Nessuno di loro si permetteva di contestare qualche solido richiamo da parte di qualche professore, laico o salesiano, anzi, rincaravano la dose.

Frammenti di un tempo lontano, ma ancora impresso nella mente; modi di essere e modi di fare su cui abbiamo costruito molte delle nostre vite, noi oggi superati e incartapecoriti “generazione boomers”, simboli di un’altra epoca. Semi di civica convivenza che abbiamo visto sgretolarsi sotto i colpi di un anticlericalismo di stampo economico e neoliberista americano, affamato di acquirenti e non di ossequiosi, modesti cittadini legati ad altri insegnamenti poco remunerativi per produttori e grande movimento di superflue merci.

Tutto è cambiato in fretta, dall’appartenenza al proprio genere al linguaggio comune, che grazie alla tv “liberi tutti” ha sdoganato quel che erano turpi volgarità, e oggi, nell’era dei social, l’intercalare “cazzo” è diventato più frequente di “okay” in ogni quando e in ogni dove. Solo lo sport conserva ancora rimasugli di rispetto e basi educative.

La scaletta di queste riflessioni, già altre volte affrontata, è tornata a galla un pomeriggio di pochi giorni fa. Ero ospite in una villetta quando un gruppo di adolescenti si è riunito nel giardino adiacente. Non una Baby gang, ma giovani figli di genitori perlomeno benestanti. A quel punto, un certo tipo di delicata atmosfera “vintage” con la quale stavamo intrattenendo il tempo, è stata contaminata dal linguaggio di gruppo “quasi generazione Alpha”, urticante e villano.

Non sono certo uno sprovveduto e neppure un bacchettone puritano, anzi, conosco bene la materia essendo stato professore di ruolo durante sette anni della mia prima vita, scegliendo volutamente istituti di periferia, ma il coro di nullità culturali e di riferimenti alle sessualità maschili, da parte del gruppetto d’ambo sessi se non tre, non poteva passare inascoltato o ignorato con fare noncurante.

Forse perché da poco uscito da una severa permanenza in ospedale dove, in oltre due mesi, ho visto terminare il tempo della vita in alcune persone intorno alla mia età, di colpo, quell’atteggiamento sterile di una gioventù priva di ogni filosofia, mi è diventato intollerabile e sono andato via.

È stato come se si fosse completato un processo di ragionamento. In primis i pensieri maturati in un reparto di terapia intensiva, dove, guardandomi attorno e ascoltando discorsi e gemiti di una certa età, ho immaginato le loro vite e la mia, tutte in vista del prossimo traguardo, tutte forgiate in un’altra epoca, e poi, ho spostato l’attenzione su certe impunite violenze giovanili che sono sempre più al centro delle cronache, e su una catena di domande a effetto domino ispirate da quel bel gruppo di… Meglio gioventù? La dopamina non basta per giustificare la crepa nel comportamento civico. C’è qualcosa d’altro che non va.

Da qui in avanti si corre il rischio di esprimere giudizi affrettati, di scivolare in paragoni di parte, di esprimersi davvero come un vetusto che cerca consenso in coetanei d’una certa età. Occorre dunque fermarsi e concludere con un amarcord da consegnare anche alle più giovani leve, senza saccenza né presunzione di essere stati veramente migliori, ma con precisata nostalgia per certi avveduti insegnamenti di cui oggi, forse si sente forte la mancanza.

Diapositive di ragazzi che si facevano il segno della croce, che giocavano a pallone con le scarpe Superga, che andavano a scuola camminando anche per una certa distanza, con la pioggia e con la neve, portando una pesante cartella di cuoio. Allievi salesiani, figli di una grande famiglia dove nulla era perfetto, ma molto di educativo, che mi è tornato in mente ascoltando un manipolo di adolescenti senza scopo e senza idee, farsi grandi con esecrabile linguaggio, genitori presenti, scoperchiando un latente disagio ispirato da stupri e da omicidi per mano di quelli che un tempo erano considerati soltanto ragazzi. 

Prima di trovarmi impantanato in questo spinoso argomento, ho ricordato che nei pomeriggi di fine estate, noi adolescenti si partiva col treno per andare a Ceres e poi camminare fino in cima alla montagna, zainetto e cibo in scatola, stesse scarpe Superga… ma questa è un’altra storia, garbata anch’essa. Forse sono in tanti d'una certa età che custodiscono in un cuore antico, simili ricordi, se ne gradiscono il succo, che condividano questo articolo con figli e con nipoti.

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Articolo pubblicato il 05/09/2023