La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Mortale ferimento alla trattoria del Ponte delle Benne (domenica 8 agosto 1875)

Presentiamo una storia che rientra nel grande capitolo della barabberia torinese, fornita di qualche peculiarità che la rende degna di attenzione. Viene narrata da Curzioncino (M.) nella Rivista dei Tribunali della Gazzetta Piemontese del 15 luglio 1876 con grande simpatia nei confronti dell’imputato, fatto inusuale nei cronisti giudiziari, di solito più condiscendenti alle tesi dell’accusa rispetto a quelle della difesa.

La storia inizia nel modo tipico, alla sera di domenica 8 agosto 1875, nell’osteria detta del Ponte delle Benne, l’attuale Ponte di corso Regio Parco, ma ancora nella versione in muratura costruita nel 1839. Nell’osteria si trovano due brigate di giovani operai, fin troppo allegri e spensierati, la prima composta da Giovani Massano, conciatore di 24 anni, Giuseppe Brozolo, di 18 anni, Giovanni Boero e Francesco Viani, detto il Cicì.

Della seconda fanno parte Andrea Ferraris, Luigi Musso, Antonio Pio, Luigi Prato, Francesco Grassi e Bartolomeo Canova.

Bevono tutti, quelli della prima brigata giocano alla morra, quelli della seconda alle carte, tranquillamente, senza i soliti funesti litigi. Soltanto quelli della prima brigata, al momento di uscire dall’osteria, si mettono a discutere a proposito di quattro soldi, ovvero 20 centesimi, rimasti in sospeso sulla vincita. La discussione è accalorata, visto che i giovani sono già euforici per il vino tracannato, ma si conclude ben presto alle buone, visto che Giovanni Massano paga i quattro soldi.

Mentre Massano, Brozolo, Boero e Viani, trattenuti dalla discussione, sono ancora sulla porta dell’osteria, l’altra brigata, formata da Ferraris, Musso, Prato e compagni, esce. Uno di questi passando urta Brozolo, il quale, risentito e indispettito, rimprovera il maldestro, che ribatte. Scoppia così un diverbio che non ha seguito, perché gli altri componenti della brigata si scusano con Brozolo e se ne vanno.

Anche la comitiva di Massano lascia l’osteria seguendo quella appena uscita. Brozolo procede per primo, davanti ai compagni e piuttosto distanziato da loro. Viani e Boero lo seguono e, dopo pochi passi, lo trovano che giace a terra gravemente ferito da una coltellata alla parte superiore sinistra del petto, da dove il sangue sgorga copiosamente. Mentre lo sollevano, per trasportarlo all’ospedale Mauriziano, arriva Giovanni Massano.

Appena Viani lo vede, gli grida: «Ecco, o Massano, che cosa è accaduto per causa tua!». Voleva dire che se l’amico non li avesse trattenuti al momento di uscire con la questione dei quattro soldi, la comitiva si sarebbe allontanata prima dall’osteria e non sarebbe accaduto niente. Ma queste parole di Viani, raccolte dai Carabinieri e da vari curiosi, fanno sorgere la voce che Massano sia stato il feritore.  

Brozolo rimane in vita fino alle 8 della sera del 13 agosto. Al giudice istruttore dichiara di essere stato aggredito da sei giovani che non conosceva e uno di questi, senza motivo, lo ha accoltellato. Esclude che sia stato Massano, che conosceva bene. Questa dichiarazione, rilasciata quando il ricordo del ferimento è più vicino, non allontana i sospetti da Massano, il quale, il 14 agosto si presenta spontaneamente in Questura, dove viene arrestato.

Gli inquirenti ritengono di avere prove sufficienti della sua colpevolezza. Il 12 luglio dell’anno seguente viene processato in Corte d’Assise, accusato del mortale ferimento di Brozolo.

Giovanni Massano appare come un giovane di bassa statura, rosso in volto, con capelli e baffetti neri. La sua fisonomia non mostra attitudine al delitto, il suo contegno appare umile e timido.

Nel dibattimento, l’accusa si basa sulle parole che Viani ha rivolto a Massano dopo la scoperta del cadavere. Un altro argomento evocato dal Pubblico Ministero è il fatto che Massano ha cercato di fornire un alibi, risultato fittizio, allo scopo di ingannare gli inquirenti. Inoltre, alcuni testimoni sostengono che in fin di vita Brozolo ha indicato Massano come suo feritore.

La cronaca non ci spiega però il motivo che lo avrebbe indotto ad accoltellare l’amico.

Questa mancanza di motivazione è a favore dell’accusato come anche la sua amicizia con Brozolo, i suoi buoni precedenti, le ottime informazioni sulla moralità e sulla buona condotta sua e della sua famiglia, fornite dalle autorità e da illustri e rispettabili signori torinesi.

Francesco Viani dichiara di non aver visto che Massano fosse armato di coltello né che avesse rincorso Brozolo. I due comproprietari della Trattoria delle Benne, la moglie di uno di questi e un altro signore sostengono che Massano non è andato con i compagni, ma è rimasto sulla porta dell’osteria mentre avveniva l’accoltellamento.

L’accusa contrappone però altri testimoni, i quali sostengono che Massano ha lasciato l’osteria e insieme a Brozolo e altri compagni ha inseguito l’altra brigata per chiedere, con maniere energiche, una riparazione dell’urtone dato a Brozolo.

Come si è detto in esordio, il nostro cronista giudiziario Curzioncino non appare troppo convinto delle prove portate dall’accusa. A chi dice che Brozolo in punto di morte ha accusato Massano, ribatte: «Ma non potrebbe fors’anche darsi che il morente, sapendo che era incolpato l’amico, volesse difenderlo, e che le sue parole male articolate venissero fraintese nel senso opposto? Chi lo sa!». Vengono interrogati moltissimi testimoni e così, scrive il cronista, si alimenta l’idea della colpevolezza di Massano: «Sebbene niuno abbia saputo, a nostro parere, accennare a fatti precisi, a specifiche circostanze a carico dell’accusato, tuttavia sorse dal complesso un cumulo d’indizi contro di lui. Erano essi fallaci o veritieri?».

Sono affermazioni gravi per un cronista giudiziario, rafforzate da queste sue sconsolate conclusioni: «Forse i miei lettori non avran potuto formarsi un giusto concetto, un’idea precisa e certa da questa mia cronaca. Se così è, ciò mi prova che essa è la fedele riproduzione delle risultanze del dibattimento».

Con questi risultati poco rassicuranti, il Pubblico Ministero e l’avvocato di parte civile sostengono con forza la colpevolezza di Massano. I due avvocati difensori hanno preso a cuore il loro assistito e le loro arringhe denotano la loro intima convinzione della sua innocenza.

Il Presidente, conte Roasenda, ha condotto il dibattimento in modo imparziale. Ai giurati tocca risolvere un grave dubbio. Quando si ritirano in camera di deliberazione, il pubblico, molto numeroso, attende il verdetto con trepidazione e ansietà mentre l’accusato è atterrito e piangente.

Rientra la giuria e la Corte. Un silenzio di tomba accompagna la lettura del verdetto. Giovanni Massano è dichiarato colpevole del ferimento di Brozolo, senza che abbia potuto prevedere le conseguenze del suo atto, ammettendo la provocazione non grave e le attenuanti. Evidentemente, i giurati si sono dimenticati del motto latino di grande saggezza «In dubio pro reo» (Nel dubbio, giudica a favore dell’accusato).

Il verdetto non è ben accolto dal pubblico: Curzioncino registra questo fatto anche se deve stigmatizzarlo. La Corte condanna Massano a sette anni di reclusione, alle spese, e ai danni.

Quanto narrato fino ad ora alimenta la sensazione di essere in presenza di un caso di malagiustizia, sensazione aggravata dal fatto che il ricorso di Massano in Cassazione viene respinto con sentenza del 14 dicembre 1876.

Sulla decisione dei giurati ha pesato il fatto che Massano costituisce un colpevole “verosimile” se non vero: un operaio che stava santificando il giorno festivo in modo non appropriato. Sono preconcetti al tempo fortemente condivisi. Lo stesso Curzioncino li ha affacciati nella sua cronaca, quando scrive che i giovani operai protagonisti della vicenda: «secondo il mal vezzo specialmente invalso nella nostra città, si mostrano assai più teneri dell’osteria e della gozzoviglia che non della temperanza e della Cassa di Risparmio. Non sanno gli spensierati, ma tardi poi lo apprendono a loro costo, che quella è la via che conduce alla miseria o al delitto o al suicidio; questa invece ad una vita agiata ed onesta, ad una vecchiezza consolata e provveduta».

Anche la sua conclusione è in questo senso: «Così senza serio motivo, senza che se ne sia potuto conoscere il perché, avvenne tal fatto che gettò nella desolazione due buone e onorate famiglie, l’una per la condanna, l’altra per la morte di un figliuolo che era il primo sostegno di una povera vedova! Oh! Quando mai vedremo migliorarsi l’educazione della classe operaia!».

Certo sono considerazioni scontate e un po’ retoriche, ma in ogni caso dobbiamo riconoscere al cronista Curzioncino una coraggiosa e inusuale presa di posizione critica nei confronti della pubblica accusa.

 

 

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Articolo pubblicato il 08/12/2023