Con l'emendamento Canguro in arrivo la “repubblica monopartitica” e il Pd si spacca

C'è aria di scissione nel Partito Democratico a causa dell'emendamento Esposito che riscrive quasi del tutto la legge elettorale riducendola a voce di un solo (mezzo) partito. Ecco di cosa si tratta

Il Senato ha dato il via libera all'emendamento Esposito, il cosiddetto “Super Canguro” (con 175 sì, 110 no e 2 astenuti), facendo infuriare i dissidenti del Pd alla cui testa vi è Pierluigi Bersani.

Ma cos'è questo emendamento che tanto ha fatto irritare parte del Pd, Lega e M5s?

Si tratta di una manovra che prevede il raggruppamento di tutti gli emendamenti inerenti ad uno stesso tema, di modo che, quando un emendamento viene approvato o bocciato, tutti quelli connessi decadano automaticamente.

Con l'emendamento Esposito cadono di fatto 35.000 proposte di modifica delle 47.000 presentate. Ottima mossa, Esposito. Ottima mossa piccolo duce.         

Non è difficile immaginare quante e quali possano essere le implicazioni di un emendamento del genere alla riforma elettorale: un testo scritto da un'unica voce, espressione che neppure può esser definita di un solo partito, ma di una sola ala di un solo partito, dato che al momento il Pd è gravemente fratturato; purtroppo non c'è pronto soccorso che regga.                  

D'altronde quando l'intera sanità subisce un tracollo economico, i servizi offerti al pubblico vengono ridimensionati e fortemente tagliati, per non dire revocati.

Il nostro Paese non sta subendo solo un perpetrarsi di un tracollo economico, ma anche democratico. Una società nella quale un solo partito decide, si impone e regna è, per definizione, una società che vive un regime autoritario “a partito unico”. E' vero, legalmente non è così, ma se chi governa e scrive le leggi poi le aggira con chiari intenti opportunistici e personali, la situazione pratica si rivela essere ben altra. Senza contare che, una mossa del genere non renderebbe l'Italicum anticostituzionale, siccome la “magna carta” sancisce che l'Italia è una repubblica e in quanto tale rifiuta un regime autoritario come storicamente avvenne con il regime fascista, che era esplicitamente (a differenza di oggi) monopartitico?

L'emendamento, va ricordato, recepisce l'accordo sottoscritto nel vertice di maggioranza dell'11 novembre scorso a Palazzo Chigi: premio di maggioranza (34 seggi) alla lista che supera il 40% dei consensi, senza il quale si va al secondo turno tra i primi due partiti più eletti. I 630 deputati (eccetto quelli del Trentino Alto Adige e della Valle d'Aosta) verranno eletti in 100 collegi plurinominali (ciascuno di essi manda alla Camera in media 6 parlamentari).

Nei collegi i partiti dovranno presentare listini con un alternanza uomo-donna, i capolista dello stesso sesso non potranno eccedere il 60% del totale in ogni circoscrizione. L'elettore potrà esprimere fino a due preferenze per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capolista che, invece, è bloccato. Accederanno alla ripartizione i partiti che supereranno il 3%. Infine, entra in scena la clausola detta “di salvaguardia”: la Camera dei deputati è eletta secondo le disposizioni dell'Italicum "a decorrere dal 1º luglio 2016".

Bersani non ci sta. Non vuole essere il satellite del partito principale e si riunisce nella sala Berlinguer di Montecitorio con 140 esponenti di partito, tra i quali: Rosy Bindi, Pippo Civati, Stefano Fassina, Sesa Amici, Cesare Damiano, Francesco Russo, Corradino Mineo, Nico Stumpo, Gianni Cuperlo. Più che “una riunione di corrente, è una riunione di partito”, ha ironizzato Giacomo Portas.

Ma cosa ne pensa l'ideatore di questo emendamento che è causa di tensioni all'interno e all'esterno del partito? Sicuramente nulla di positivo dato che il signor Esposito non solo non si è accontentato di aver dato una bella spintarella all'Italicum eliminando l'ostruzionismo, ma ha deciso di tacciare i suoi compagni e colleghi dissidenti di parassitismo (in una intervista concessa a La Repubblica).

Renzi, il ducetto, dal canto suo mica si fa intimidire: “non subiremo poteri di veto dei piccoli partiti – a quanto pare nemmeno dal suo – e il governo durerà 5 anni”. Così tuona Renzi in conferenza stampa a Palazzo Chigi, “siamo qui per fare quello che in 30 anni non ha fatto nessuno: legge elettorale, sfatare tabù ideologici sul mondo del lavoro, nella Pubblica amministrazione ed ora il mostro sacro del sistema del credito. Se c'è un marchio di fabbrica del Governo è questo", ha aggiunto al termine del Consiglio dei ministri.

Parole che (come al solito) rimandano a dinamismo, originalità, giovinezza e velocità, in un motivetto che ricorda tanto una compatta sinfonia già sentita negli anni venti e trenta del Novecento.

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Articolo pubblicato il 21/01/2015