“Final Portrait – L’arte di essere amici”

Con un favoloso Geoffrey Rush diretto da Stanley Tucci, il film apre un piccolo spaccato sulla vita e l’arte di Alberto Giacometti

Anno: 2017

Titolo originale: Final Portrait

Paese: Regno Unito

Durata: 90 minuti

Genere: Biografico

Regia: Stanley Tucci

Soggetto: James Lord (diario)

Sceneggiatura: Stanley Tucci

Cast: Geoffrey Rush, Armie Hammer, Clémence Poésy, Tony Shalhoub, Sylvie Testud, James Faulkner

Presentato fuori concorso al Festival di Berlino e al Torino Film Festival, approda nelle sale italiane Final Portrait – L’arte di essere amici di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush e Armie Hammer.

Il film racconta la storia dei diciotto giorni in cui lo scrittore americano James Lord (Armie Hammer) posò per un ritratto per Alberto Giacometti (Geoffrey Rush) nel suo atelier parigino a metà anni Sessanta, in lunghe ed estenuanti sedute durante le quali l’artista, mai pienamente soddisfatto, riprese da capo l’opera più volte.

Tucci prende spunto dal libro di Lord A Giacometti Portrait, diario del periodo passato a posare per lo scultore e pittore svizzero, noto soprattutto per le sculture di esili e allungate forme umane. Il film è la curiosa sbirciata in un brevissimo periodo della sua vita, ma anche nella sua mente; artista fecondo e apprezzato, Giacometti era però patologicamente insicuro, nevrotico e maniacale, eternamente insoddisfatto del proprio lavoro e dubbioso riguardo al proprio talento.

Final Portrait non è solo la storia della nascita un dipinto, è il racconto e la magnificazione dell’incompiuto, espressione artistica tanto cara a Giacometti, che lo rese il grande artista da molti ritenuto uno dei più grandi della seconda metà del Novecento.

La vicenda si apre e si chiude con la narrazione in prima persona di Lord, testimone e amico del genio a cui dedica la cronaca postuma dei giorni passati insieme (Giacometti morì infatti pochi anni dopo aver ritratto Lord, e i due non si incontrarono più), raccontando con una certa tenerezza le manie dell’artista, il suo carattere variabile, il rapporto conflittuale con la moglie Annette, l’ossessione amorosa e artistica per la sua musa e amante Caroline.

Stanley Tucci, grandissimo attore per la quinta volta nei panni di regista, ha lasciato in fase di realizzazione ampio spazio al lavoro degli interpreti; “Per favore, non recitate. La verità nel nostro mestiere è tutto”. Figlio di un docente di arte, Tucci è un appassionato collezionista, e il suo amore per l’arte è ben riflesso nell’approccio da cultore del film.

La macchina da presa indugia sulle porzioni del volto di Lord presi in esame dal pittore, compie numerosi primi e primissimi piani di Rush/Giacometti intento a dipingere prima di imprecare e ricominciare tutto da capo; si sofferma volentieri sui dettagli della tela, dei pennelli e dei colori sulla tavolozza.

Non vediamo, nel film, la Ville Lumiére scintillante e magica a cui certo cinema ci ha abituati, bensì una Parigi fredda e grigia, piovosa e un po’ squallida che in realtà è stata ricostruita a Londra, dal momento che il budget era troppo basso per girare nella capitale francese. La fotografia dai toni grigiastri, quasi monocromatica, enfatizza l’aspetto sottilmente malinconico.

Geoffrey Rush è superbo nel ritrarre l’eccentrico artista, assistito anche da una notevole somiglianza fisica. L’attore premio Oscar australiano ha già in attivo una lunga filmografia di personaggi da “genio e sregolatezza”, a partire dal pianista di Shine per arrivare al battitore d’aste del bellissimo La migliore offerta, altra pellicola ambientata nel mondo dell’arte.

Armie Hammer risulta piuttosto passivo e poco coinvolgente nella sua interpretazione di James Lord, ma sarebbe stato probabilmente difficile fare altrimenti, data la natura del suo personaggio.

Nel cast troviamo anche Clémence Poésy nei panni di Caroline e il bravissimo Tony Shalhoub in quelli del fratello dell’artista Diego, mentre Sylvie Testud, attrice francese poco conosciuta ma molto talentuosa è la moglie Annette. James Faulkner appare brevemente come Pierre Matisse.

Purtroppo Final Portait (il cui titolo è funestato dall’orribile e inutile aggiunta italiana, come da pessima abitudine nostrana) è un film di nicchia, per pochi, dal momento che risulta poco appassionante poiché pecca di freddezza come la (finta) Parigi che ritrae. Anche la struttura della sceneggiatura, alquanto ripetitiva, non aiuta a renderlo un film immediatamente godibile. È comunque interessante per chiunque sia appassionato d’arte, e le performance di Geoffrey Rush meritano sempre una visione.

 

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Articolo pubblicato il 24/02/2018