Una nuova agenda per Conte. Con prudenza, Zingaretti chiede di fatto un nuovo patto di Governo. Di Alessandro De Angelis

Bastano due parole di sinistra, "ius soli", per svelare fragilità e contraddizioni dell'alleanza con M5S.

BOLOGNA - Ecco, il re è nudo. È bastato calare nella realtà una robusta dose di politica, dopo giorni di dibattito “teorico” sui destini della sinistra per misurare, se ce ne fosse stato bisogno, quanto fragile sia l’impianto di governo: l’assenza di un collante minimo di valori e di programmi e, al tempo stesso, la latitanza di un premier troppo presto investito del ruolo di leader, ma incapace del ruolo di guida.

 

È bastato nominare due parole di sinistra, o forse semplicemente di civiltà, “ius soli”, per rendere plastico l’enorme contraddizione di fondo, del governo e dei 5 stelle, la cui anima di “sinistra”, al dunque, è sempre dispersa di fronte allo “sconcerto” espresso da Di Maio, che non perde mai occasione per mostrarsi nostalgico della sua collocazione naturale con Salvini. 

 

Ecco, dicevamo, il re è nudo. Perché il discorso di Nicola Zingaretti a Bologna apre davvero una “fase nuova”, del Pd e della vita del governo. Il segretario del Pd mette sul tavolo una “nuova agenda”. Pochi punti che, per un partito di sinistra degno di questo nome, sono il discrimine tra l’esistenza e l’eclissi. Sono tracce di quell’anima finora sacrificata sull’altare non solo della “responsabilità”, ma del governismo. Rileggiamoli. Punto uno: riaccendere l’economia per creare lavoro. Punto due: rilancio degli investimenti a partire da quelli verdi. Punto tre: parità di salario tra uomo e donna. Punto quattro: equo compenso per i professionisti. Punto cinque: modifica dei decreti sicurezza. Punto sei: ius culturae. 

 

Come vedete, in questi punti e nell’ordine del giorno di Orfini recepito dall’intera assemblea non c’è né la collettivizzazione dei mezzi di produzione, né l’assalto al cielo, tale da scandalizzare i 5 stelle. C’è un tasso minimo di discontinuità rispetto alla legislazione gialloverde, già presente nel programma di governo, ove si parla di recepire i rilievi del capo dello Stato sul decreto sicurezza, rimaste in questi mesi lettera morta, per non turbare un equilibrio di governo in cui il Pd porge l’altra guancia, Conte fa finta di essere super partes, garantendo solo il suo partito, e Di Maio il vero capo dei Cinque stelle, capace di condizionare l’agenda di governo. Insomma, parafrasando il vecchio Macaluso, sono sussulti di vita di un partito che non si cala le “braghe”, ammesso che questa sarà la posizione dei prossimi giorni.

 

Nuovo, in questa piattaforma illustrata da Zingaretti a Bologna, è l’atteggiamento complessivo, l’impianto. Quel sudore che sgorga dalla fronte del segretario come nel discorso dell’insediamento è il dettaglio che rivela quanto consideri il momento come un volta pagina. Nella sua relazione prende corpo un Pd più da combattimento, più di sinistra, diciamolo, nel suo concepirsi come “officina pensante al servizio della Repubblica”. Densa è la cultura berlingueriana dell’argomentare: la minaccia di una destra arrogante e xenofoba che a San Giovanni ha mostrato il suo progetto politico, l’urgenza nella costruzione di un campo largo, la necessità di “mettersi a servizio contro la decadenza del paese e dei suoi umori neri”, la riscoperta della comunità perché “siamo deboli quando siamo monadi sparse, invece le cose cambiano con la partecipazione collettiva”.

 

Non è testimonianza identitaria. Anzi proprio la parte della relazione in cui mette a centro i tre temi su cui ha costruito il consenso il salvinismo – territorio, impresa e famiglia – è forse la parte più innovativa di un discorso molto sentito, concluso con la citazione del Vangelo di Giovanni: “La politica è dare la vita per gli altri”.

 

Adesso il punto è capire dove porta questa impostazione. Goffredo Bettini, a Mezz’ora in più, dice: “Occorre ricomporre la dinamica politica. Se io fossi Conte riunirei tutti per vincolarli a una disciplina minima di coalizione”. Questa è la richiesta e, al tempo stesso, la soluzione. Diciamolo senza girarci attorno: l’insofferenza del Pd è tangibile, perché ormai è consapevolezza diffusa che non si riesce a governare con uno (Renzi) che ti vuole distruggere e lo dice apertamente, e un altro (Di Maio) con cui non si riesce neanche a ragionare. Toccherebbe al premier farsi carico di una iniziativa per trasformare questa caciara in una coalizione politica. Ma diciamo anche, senza girarci attorno neanche in questo caso: nessuno, dentro il Pd pensa che questo avverrà, perché la capacità di fare politica è un po’ come il coraggio per Don Abbondio: se uno non ce l’ha non se lo può dare.

 

E allora è presto per parlare delle suggestione del ritorno al voto, perché Zingaretti vorrebbe anche tornarci, ma senza che sia il Pd a staccare la spina, perché dentro il Pd il partito del governo per il governo ha una consistenza prevalente. Una cosa è certa, anche se sembra paradossale: la sconfitta in Emilia allontanerebbe la prospettiva ancora di più, perché la vittoria di Salvini sarebbe scontata, mentre la vittoria avrebbe l’effetto di ferire l’invincibilità del leader della Lega. Sono in tanti che dicono al segretario: vinciamo in Emilia, torniamo al voto, e liberiamoci di Renzi.

 

Il punto, questo è il senso della relazione di Zingaretti, è che va costruita una coalizione alternativa, stressando un processo politico già in atto. Ancora Bettini, con grande chiarezza: “Noi da soli non potremmo fronteggiare la destra, ma dentro i Cinque stelle c’è una discussione molto forte. Arriverà il momento in cui dovranno fare una scelta tra la loro anima di destra e quella di sinistra”. È in quel momento che le elezioni torneranno all’ordine del giorno. Per favorirlo, come nella relazione di oggi, un po’ va alzata la temperatura.

 

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Articolo pubblicato il 18/11/2019