Il marito patriota e conservatore della Senatrice Liliana Segre

Nel ricordo famigliare di Michele De Feudis

«Sono molto felicemente il ragazzo di Liliana Segre». La storia di un italiano illustre inizia proprio così, con l’incipit di una lettera inviata al Corriere della Sera, pubblicata accanto alla «Stanza» di Indro Montanelli.

È il racconto di un personaggio dal rigore civile e morale cristallino. La storia di Alfredo Belli Paci, marito della senatrice a vita, marchigiano, poi milanese d’adozione, avvocato pieno di stile ma soprattutto sorprendente e discreto Virgilio nel percorso che riportò l’amata Lilliana dall’orrore indelebile dei campi di concentramento e della persecuzione nazista alla vita e alla rinascita tra gli affetti familiari.

Scomparso nel 2008, è descritto da Liliana come un gigante capace di donare silenzi, protezione, comprensione e temperanza.

Il figlio maggiore Alberto – imprenditore e amante della cultura giapponese, liberale a tutto tondo – dal padre ha ereditato lo stile sobrio – apre alla «Gazzetta» un delicatissimo scrigno della memoria: «Mio padre è stato un esempio dal punto di vista del rigore, della serietà, dell’orgoglio militare: uomo tutto d’un pezzo. Aveva dieci anni più della mamma. Aveva sempre amato tutto quello che era collegato alla divisa, professava un amore profondo verso la patria».

Come tanti italiani del tempo, aveva scelto giovanissimo la vita militare: «Aveva fatto il collegio Morosini, poi aveva frequentato l’accademia di Livorno che non era compatibile con le sue conoscenze matematiche. Infine era entrato nell’esercito, era di stanza in Grecia, come sottotenente di artiglieria. Aveva giurato fedeltà al Re, non aderì alla Repubblica sociale e – catturato da una compagnia di tedeschi – ventitreenne fu internato in sette campi di prigionia».

Dopo il 1943 Alfredo divenne, come almeno altri 600mila italiani un «Imi», un internato militare italiano, patendo dolori infiniti, e scegliendo una certa idea di patria alla libertà che sarebbe stata conseguente all’adesione alla Repubblica nordista del crepuscolo fascista.

Ecco l’idea dell’Italia di Alfredo: «Lui ha scelto di dire di no, di non fare patti: avrebbe potuto firmare e tornare in Italia. Mio padre fu profondamente eroico. È stato un patriota e ribelle. Soffrendo per le sue scelte. Difese il decoro degli ufficiali italiani in prigionia, scambiava fette di pane per un po’ di lucido, affinché le sue scarpe fossero pulite come si doveva ad un impeccabile ufficiale del Regio esercito. Della sua tenuta morale ci sono resoconti anche negli atti del Comando italiano dopo la guerra. Agli inviti ad aderire alla Rsi, aveva replicato a muso duro ad un comandante della Wehrmacht dichiarando che trovava inaudita questa proposta, perché un ufficiale aveva il dovere di resistere. Ed era stato punito», ricorda ancora commosso il figlio.

L’incontro con Lilliana?

«L’aveva conosciuto qualche anno dopo il ritorno della mamma. Al mare nelle Marche, a Pesaro, dove mia nonna Bianca – prosegue nel racconto Alberto – era andata in villeggiatura. Mia nonna si chiamava Foligno di cognome, e sfuggì alla persecuzione degli ebrei nascosta in conventi da suore a Roma».

Dell’amore con Alfredo la senatrice Lilliana ne parla con poche parole, figlie di un pudore antico, ricordandone il senso di sicurezza che suo marito le trasmetteva. Senza mai fare domande. Nell’Italia del dopoguerra i dolori della prigionia (come della lotta partigiana e delle angherie subite dai fascisti nel Nord dopo il 1943) erano una memoria più o meno sussurrata, mai sbandierata pubblicamente per non riaprire ferite profonde.

«Della tragedia di entrambi – spiega il figlio Alberto – della loro prigionia, non si parlava mai. Era un tabù assoluto. Sapevamo che qualcosa di tremendo era successo». I segni, quel numero tatuato di Liliana, erano lì a testimoniare l’orrore del Novecento. «La memoria – chiarisce Alberto – era una presenza. “Non parliamone, non facciamo soffrire la mamma”. Questo era il nostro pensiero». Alfredo, italiano e marito illustre aveva un contegno unico: «Mio padre teneva separati i mondi. Sapevamo che c’era stato qualcosa di terrificante. Nella mia infanzia non si parlava mai di niente di quel periodo. Si sentiva qualcosa di tremendo ma non si poteva identificare.

Non c’erano tanti documenti, non esistevano la Rete o gli archivi digitali». Alfredo fu campione di garbo nell’accompagnare il percorso di vita con sua moglie: «Difendeva nostra madre, la portava in palma di mano, la incitava, le dava coraggio, era sempre di fianco. Sempre attento, tenero». Una roccia su cui appoggiarsi nei momenti in cui il peso del passato poteva creare smarrimento, una figura che richiamava lo stile del padre di Liliana, Alberto, ex ufficiale del ’99, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale, e dello zio Amedeo, decorato con la croce di guerra a capo retta («Un fascista della prima ora», ricorderà Liliana): «Aveva una postura militare e una eleganza innata. Un grande bell’uomo, spiritoso, ottimo relatore. Affascinante ed elegante», chiosa il figlio.

Lo ricorda così anche Eugenio Pasquinucci, amico di famiglia: «Mio padre aveva combattuto contro i tedeschi la battaglia di Montelugo. Era legato ad Alfredo, anche mia madre era amica della signora Liliana. Da piccolo giocavo con i loro figli nei parchi cittadini. Mio padre e Alfredo condividevano una idea differente dell’Italia. Un certo patriottismo».

Lo stile che lo contraddistingueva in famiglia, Alfredo lo aveva anche nell’avvocatura: legale di pregio nel settore delle assicurazioni, ha trasmesso la passione per il diritto al secondo erede, Luciano, che scelse l’impegno politico nel Psdi di estrazione saragattiana.

Le idee di Alfredo furono sempre legate «ad un chiaro senso dell’onore. Dopo le schifezze che aveva visto, si collocava – chiarisce ancora Alberto – nell’alveo della cultura conservatrice. Era un conservatore. Con noi figli era impeccabile, ma anche esigente» Negli anni ‘70 Alfredo, legato all’ammiraglio Gino Birindelli, aderì alla Costituente di destra per la libertà, insieme all’ex deputato Dc Enzo Giacchero (che era stato un comandante partigiano bianco) e Agostino Greppi. Nel 1979 si candidò alla Camera con il Msi, come indipendente, in chiara posizione anticomunista.

«Quella fu una campagna elettorale decisiva per il Msi, che doveva superare la scissione governativa di Democrazia nazionale», ricorda il professor Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice. «Alle politiche del 1979 – ricostruisce l’ex parlamentare e sottosegretario Alfredo Mantica, in quel periodo vicino all’eretico deputato Tomaso Staiti di Cuddia – la destra di Giorgio Almirante presentò liste forti, di credenti, identitarie si direbbe adesso». «Quella Milano – analizza Marco Valle, intellettuale e direttore di Destra.it – era una città straziata dall’estremismo politico rosso, dove la sinistra in consiglio comunale applaudì la morte del giovane studente di destra Sergio Ramelli (sprangato da un commando di assassini a cui partecipò anche un pugliese, ndr)».

Di quella campagna elettorale restano anche le riflessioni di Benito Bollati, deputato missino milanese, 93enne, che ci racconta «di un avvocato pieno di stile, di educazione antica. Il filo rosso che ci univa? Era il patriottismo dell’Italia che amavamo». Quella scelta di impegno politico creò una grave crisi nella coppia, che si superò unicamente quando rinunciò alla militanza politica.

Alberto nei mesi scorsi ha scritto una lettera al «Corsera» per difendere sua madre da critiche e polemiche scaturite dalle cronache politiche: «A voi che non vi alzate in piedi davanti a una donna di 89 anni, che non è venuta lì per ottenere privilegi o per farsi vedere più brava ma è venuta da sola (lei sì) per proporre un concetto libero dalla politica, un concetto morale, un invito che chiunque avrebbe dovuto accogliere in un mondo normale, senza sospettosamente invece cercare contenuti sovversivi che potevano avvantaggiare gli avversari politici. A voi dico: io credo che non vi meritiate Liliana Segre!». Il figlio maggiore come il padre, al fianco dell’amata mamma: «L’idea di protezione – conclude Alberto – verso mia madre l’abbiamo eredita da papà. Con i miei fratelli, abbiamo ereditato la visione di difendere nostra madre fino a che avremo vita».

Alfredo Belli Paci fu un italiano illustre, declinò nell’Italia ferita dalla Seconda guerra mondiale e negli anni complessi del dopoguerra la luminosa figura del cavaliere medioevale Wilfred di Ivanhoe. Coraggioso e fedele alle sue idee, tutta la vita al fianco dell’amata Rowena. E quando Liliana tornava a casa, provata, da una conferenza o una testimonianza in una scuola, la riaffermazione della normalità era cadenzata da queste parole di Alfredo: «Amore mio, tutto bene?». E la risposta era un sorriso che consentiva, ancora una volta, di superare il dolore.

Michele De Feudis, La Gazzetta del Mezzogiorno, 26 gennaio 2019

 

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Articolo pubblicato il 29/01/2020