Riflessioni su quattro Cantate di Alessandro Scarlatti
Maria Caruso

Un illuminante contributo che ci consente di scoprire l’approccio interpretativo di una cantante di fronte al grande compositore palermitano.

Ascoltando un disco ci formiamo spesso un’idea e una valutazione legata alle nostra sensibilità e al nostro gusto estetico, basati su una molteplicità di esperienze che tengono conto non solo della sfera artistica, ma anche del modo di essere di ognuno di noi. Per questo capita che un’interpretazione possa piacere follemente a qualcuno e lasciare del tutto indifferente qualcun altro. Certo, esistono elementi oggettivi – come l’intonazione, per esempio – su cui non è possibile discutere, ma al di là di questi aspetti per così dire “grammaticali” c’è tutto un mondo di sfumature espressive su cui si potrebbe discutere all’infinito senza giungere mai a un accordo.

 

Per cercare di rivelare una nuova prospettiva, ho chiesto all’amica Maria Caruso, soprano di Parma, che ha realizzato di recente un disco per Elegia Classics comprendente quattro cantate di Alessandro Scarlatti, di rivelarmi alcune delle scelte interpretative che l’hanno guidata a eseguire questi capolavori del grande compositore palermitano. Ne è scaturito un testo molto interessante, che può aiutarci a scoprire il punto di vista di una cantante che si accinge a ridare vita a brani composti oltre tre secoli fa. Trattandosi di un testo piuttosto lungo, ho deciso di dividere la disamina di Maria in due parti, la prima – questa – dedicata agli aspetti generali e la seconda alle quattro opere presentate nel suo disco. Ma lasciamo spazio a Maria

 

«A un primo ascolto, subito dopo aver inciso le cantate e prima del montaggio, un senso di grande stupore mi ha spinto a fare una riflessione che spero sia utile all’ascoltatore. La riflessione è semplice: questo non è un disco nel senso in cui oggi si intende il CD – non è un disco che nasce da scelte di mercato e, in un certo senso, non è un disco moderno. Eppure, pur non essendoci alcuno dei canoni contemporanei del “gusto acquisito” di una musica antica che ha attraversato decenni di discografia, c’è l’intenzione e l’immediatezza di una ricerca di ciò che è solido.

Non c’è stata da parte nostra la ricerca della perfezione che si può ottenere con l’alterazione data dallo strumento tecnologico ma, al contrario, l’accettazione della “fisiologia” della musica e di tutto ciò che è elemento umano. Evidentemente, nessuno di noi, pur senza esprimerlo in tante parole, voleva creare qualcosa di artificioso a tutti i costi – un “prodotto discografico”. Lo strumento tecnologico è rimasto al servizio dell’esigenza di far musica espressiva, di rispettare il testo.

Le quattro cantate scelte per questo progetto sono inizialmente nate in funzione di Correa nel seno amato, indiscusso capolavoro di Scarlatti, e gli elementi che gradualmente hanno consolidato una scelta che ritengo fortunata hanno poi confermato la valida costruzione narrativa di una “Liturgia profana del dolore”, in cui sussistono insieme molteplici livelli interpretativi, archetipici e umani, tutti rispondenti alla sublimazione del terrore dell’abbandono e della morte, allo slancio verso quelle stesse “fiaccole di stelle” che sole possono illuminare le notti dell’anima.

 

La scelta dei tempi.

Il tactus non è una scelta arbitraria dettata da un gusto passeggero. Il tactus è misura umana, è come una regola aurea del Tempo umano: il processo che l’anima impiega per comprendere un testo e metabolizzarlo passa attraverso una necessità fondamentale, che è il giusto tempo, o, permettetemi, “il tempo che ci vuole”.

 

Una scelta dei tempi in base alla necessità di seguire il concetto errato che “l’ascoltatore moderno è abituato a ciò che è iperveloce” o in base ad un concetto di virtuosismo da baraccone è molto lontano dall’intenzione di una lettura meditata del testo musicale in questo caso. Scarlatti in queste cantate esige che la voce sia in costante sprezzatura e che l’interprete sparisca al cospetto dei Personaggi, e sia strumento del trascendente: il Tempo, dunque, è indicato chiaramente e il tactus, come inteso nei trattati che abbiamo, non è un elemento che può essere piegato al proprio gusto transitorio.

 

Se questo poi renda più difficile tecnicamente l’esecuzione o in realtà permetta l’emergere di una retorica che rispetti gesti e silenzi, dilatazioni e respiri dovrebbe tornare a farci riflettere, da musicisti e ascoltatori. Di certo, ciò che Scarlatti scrive è chiaro, funzionale, suggestivo: Scarlatti ricava antri cavernosi e terrore di mostri in rarefatte atmosfere, con gesto elegante, volutamente lento in queste cantate, e il suo gesto ampio richiede che voce e strumenti cerchino la tensione e intensità senza cedere a vezzi superflui.

 

L’elogio della lentezza, dunque, che trova in “Ombre opache” o in “Onde belle”, ma anche in “Povera Clori” o “Nelle selve, tra le belve” è un gesto pittorico di ampio respiro, dettato dalla severità del tactus che, alla fine, risulta liberatoria. Infatti, solo la disciplina può originare sprezzatura, e in questo devo esprimere gratitudine ai colleghi per l’immediata condivisione nella pratica del suonare.

 

La tipologia di voce drammatica

Le cantate scelte sono particolarmente adatte a un tipo di voce drammatica e allo stesso tempo scura. In particolare, Dove fuggo si presta a questo tipo caratteristico di timbro, che possa a un tempo esprimere un carattere alquanto virile nell’intenzione drammatica e femminile nell’oscurità del colore.

 

Le voci drammatiche sono notoriamente difficili da controllare. Si eccede spesso, dimenticando l’eleganza della frase musicale a discapito dello zelo nella parola. Trovare questo equilibrio, inutile dirlo, è difficilissimo, ed è stata la sfida personale di interprete, per me. Tanti diversi elementi sono in gioco dal punto di vista tecnico e interpretativo, ma ciò che in realtà dovrebbe essere la sintesi di questo lavoro è l’essere al servizio della genialità di Scarlatti nella sua narrativa grandiosa.

 

In questo caso, la molteplicità delle emozioni umane e tutti gli stadi del dramma dell’abbandono e dell’ascesa a un paradiso stellato ma profano sono rapidamente in susseguirsi per cui ogni frase, ogni parola, intessono il chiaroscuro che solo il registro solido della “voce di mezzo” può ancorare con solido peso nel registro grave e slancio nell’acuto, che qui potrebbe sembrare non trovar sfogo, eppure tocca con sapiente scrittura al momento giusto le note di passaggio che in certe voci scure si assottigliano con difficoltà e allo stesso tempo grazia.

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Articolo pubblicato il 19/03/2020