Un incontro a tutto campo con Alessandro De Marchi, per 14 anni apprezzato direttore artistico delle Innsbrucker Festwochen der alten Musik.
Nel corso degli ultimi anni si è diffusa a macchia d’olio la tendenza a criticare – e spesso stroncare senza appello – qualunque cosa che riguardi il nostro Paese, sottolineando impietosamente come le cose all’estero funzionino sempre molto meglio.
A parte che – come ci ricorda un antico adagio – non sempre tutto è oro quello che luccica (anche nei più evoluti paesi europei), nessuno può negare i problemi endemici che ci affliggono, tuttavia sarebbe anche giusto apprezzare di più le nostre qualità e i nostri migliori artisti, che spesso trovano il giusto riconoscimento proprio al di là dei nostri confini.
Questo è il caso di Alessandro De Marchi, che 14 anni fa è stato scelto dai vertici di uno dei festival di musica antica più prestigiosi del mondo, le Innsbrucker Festwochen der alten Musik, per ricoprire l’incarico di direttore artistico dopo il mandato del famoso direttore belga René Jacobs.
Si trattava di una sfida da far tremare i polsi, vista la qualità del lavoro svolto dal suo predecessore, che De Marchi ha affrontato con acume, intelligenza e lungimiranza, facendo diventare dopo 14 anni il festival di Innsbruck uno degli appuntamenti fissi degli appassionati di musica antica di tutta Europa.
Dopo la fine dell’edizione 2023 delle Innsbrucker Festwochen (che ha fatto registrare un’affluenza record di spettatori), ho incontrato De Marchi per cercare di fare un bilancio di questi anni trascorsi nella bella città austriaca, che hanno visto la prima esecuzione moderna di tanti capolavori dimenticati da secoli.
Ovviamente, il discorso non poteva che iniziare dalla fine, dagli ultimi concerti che hanno visto il pubblico riservare a De Marchi vere ovazioni, prova inoppugnabile degli eccellente risultati raggiunti. «In effetti», rispende il direttore, «quest’anno abbiamo avuto molti interpreti di altissimo livello, basti citare i miei colleghi direttori Giovanni Antonini, Christophe Rousset e Francesco Corti, alcuni grandi protagonisti della musica antica come il controtenore Bejun Mehta e nuove stelle lucentissime del panorama internazionale come lo strepitoso sopranista Bruno de Sá e il giovane mezzosoprano Sophie Rennert».
Come era accaduto nelle edizioni precedenti, anche nel 2023 il cartellone ha riservato ampio spazio ai compositori italiani, in particolare ad Antonio Vivaldi, che è stato rappresentato da tre produzioni, ossia L’Olimpiade, diretta dallo stesso De Marchi con un cast stellare, La fida ninfa, eseguita da un cast giovane ma di livello molto alto, e l’oratorio Juditha triumphans che ha chiuso la rassegna, anche questo diretto da De Marchi.
«La scelta di Vivaldi è nata dal fatto che le sue opere – benché oggi siano rappresentate più spesso che in passato – sono ancora eseguite raramente in forma scenica.
Nel caso dell’Olimpiade, ho voluto chiudere una parabola durata 14 anni e iniziata con l’opera composta da Pergolesi sullo stesso libretto di Metastasio, quella con cui ho iniziato il mio mandato a Innsbruck nell’estate del 2010. Per quanto riguarda la Fida ninfa, si tratta invece di un tentativo di mettere alla prova i nostri giovani cantanti con una partitura che richiede un livello di virtuosismo nettamente superiore alla media delle opere che avevo programmato per loro fino a quel momento.
La scelta di Juditha è stata invece dettata dal desiderio di presentare al pubblico austriaco e internazionale la meravigliosa produzione che la regista Elena Barbalich ha realizzato con me qualche anno fa alla Fenice di Venezia, una produzione a mio giudizio esemplare per semplicità, eleganza e potenza drammatica».
Grazie all’impegno di De Marchi e di altri direttori filologi, le opere teatrali di Vivaldi non sono più considerate le Cenerentole del Barocco, ma va comunque detto che continuano a rimanere dietro – nonostante la loro innegabile bellezza – i capolavori di compositori come Georg Friedrich Händel.
Per capire come è stata condotta questa doverosa rivalutazione della produzione teatrale del Prete Rosso, ho chiesto al mio gentile interlocutore quali sono i segreti – ammesso che esistano – che hanno portato alla consacrazione di questi lavori per molto tempo ritenuti poco teatrali. «Il segreto in realtà è molto semplice, perché per eseguire nel modo migliore queste opere è necessario avere i cantanti, i musicisti e i direttori giusti e oggi – dopo anni nei quali l’approccio strumentale e vocale a questo stile è andato costantemente migliorando – possiamo finalmente contare su interpreti in grado di rendere piena giustizia a questo repertorio meraviglioso».
Veniamo poi a La fida ninfa, che – come detto – è stata portata in scena da un cast molto giovane. «Si tratta di un allestimento molto semplice ed estremamente poetico, che si adatta alla perfezione all’estetica del libretto e alla favola che racconta, con una freschezza e una naturalezza che vengono esaltate da queste giovani voci. I cantanti provengono dal Concorso Cesti e sono stati selezionati come di consueto durante l’edizione dell’anno precedente, che allo stesso tempo è un concorso e un casting. Il paziente lavoro dei registi e della giovane direttrice Chiara Cattani ci hanno permesso di presentare una produzione che spicca senza dubbio come una delle migliori dell'ultimo decennio».
Per finire il trittico vivaldiano, veniamo ora alla Juditha triumphans, un oratorio militare ricchissimo di colori orchestrali e che richiede cantanti in possesso di doti vocali fuori dal comune. «È vero, d’altra parte i grandi cantanti del Settecento percepivano cachet esorbitanti. Questo fatto, però, aveva come conseguenza la necessità di limitare il budget per l’orchestra, specialmente a Venezia. Con la Juditha ci troviamo però di fronte a un oratorio composto per l’Ospedale della Pietà, un istituto dove giovani ragazze orfane – le “putte della Pietà”, appunto – venivano educate al canto e allo studio degli strumenti musicali. Molte erano polistrumentiste e molti viaggiatori provenienti da tutta l’Europa andavano ad ascoltare le esecuzioni di queste eccellenti musiciste. Per questo, nella Juditha Vivaldi poté fruire di un organico molto più ampio di quello avrebbe avuto nella buca di un teatro d’opera. Accanto agli archi troviamo oboi, flauti dolci, clarinetti, salmoè, mandolino, viola d’amore, tiorbe, trombe, timpani, organo e chi più ne ha più ne metta… Un vero miracolo di strumentazione, che ha permesso al compositore di adattarsi alle infinite sfumature del libretto e della narrazione».
Nei ruoli chiave di queste tre opere erano presenti molti cantanti italiani, da Raffaele Pe, ad Arianna Vendittelli e al giovane controtenore Nicolò Balducci, ai quali si sono aggiunti altri interpreti del nostro paese protagonisti altri concerti, come Francesca Aspromonte, Rinaldo Alessandrini e lo stesso De Marchi. Questo fatto sembrerebbe dimostrare che la scuola filologica italiana continua a godere di ottima salute. «Nel mondo barocco ci sono grandi talenti provenienti da tutte le nazioni, ma devo ammettere che negli ultimi decenni la scuola italiana ci ha dato gran belle soddisfazioni!».
Tra i direttori stranieri spicca ovviamente il nome di Christophe Rousset, che alla testa della Theresia Orchestra ha diretto il Rex Salomon di Tommaso Traetta, opera di rarissimo ascolto, di cui ero curioso di sapere qualcosa di più. «In effetti si tratta di una riproposizione di cui sono molto orgoglioso. Volevo a tutti i costi inserire nel cartellone una produzione che avesse stretti legami con l’ambiente veneziano e con Vivaldi. Per questo motivo, ho scelto, seguendo gli studi e le indicazioni di Simone Laghi, un oratorio scritto da Traetta per lo stesso istituto per il quale Vivaldi aveva composto la sua Juditha. Purtroppo, nonostante la bellezza della musica e l’indiscutibile valore storico, questo oratorio non verrà documentato da una registrazione discografica, mentre sia L’Olimpiade sia La fida ninfa saranno presto pubblicate in CD dalla nota etichetta tedesca CPO. Dell’Olimpiade uscirà anche un video con i “The Best of”».
Personalmente ho sempre ritenuto che uno degli elementi più interessanti del festival sia il Premio Cesti, un ambito riconoscimento riservato ai giovani cantanti specializzati nel repertorio barocco istituto da Alessandro De Marchi, una iniziativa che ha contribuito a consacrare numerosi giovani cantanti, molti dei quali oggi sono richiestissimi protagonisti delle migliori produzioni filologiche. «Anche se non sono certo io a doverlo dire, credo che dopo 14 anni il bilancio del Concorso Cesti sia estremamente positivo.
Infatti, il livello dei cantanti è andato sempre crescendo, le giurie che si sono alternate sono state di altissimo profilo e moltissimi di questi giovani calcano oggi con successo i teatri internazionali, tornando spesso a Innsbruck da celebrati professionisti. Tra i cantanti che hanno preso parte alle Innsbrucker Festwochen del 2023 ben 14 avevano legato la loro storia personale al Concorso Cesti, un dato che mi pare molto significativo. Mi è sembrato giusto intitolare il concorso a Marc’Antonio Cesti, compositore aretino che lavorò per anni a Innsbruck come maestro di cappella, contribuendo a trasformare questa città nel centro operistico più importante a nord delle Alpi della sua epoca».
Facendo un passo indietro, ho chiesto a De Marchi se poteva raccontarmi, senza indulgere a facili malinconie, alcuni degli eventi più rappresentativi della sua direzione artistica a Innsbruck. «Ogni edizione delle Innsbrucker Festwochen ha avuto parecchi momenti memorabili. Devo però dire che senza ombra di dubbio la stima dei colleghi musicisti e il grande abbraccio che il pubblico mi ha sempre voluto tributare sono gli elementi che rimarranno per sempre nella mia memoria».
Una risposta estremamente misurata, che ha evitato accuratamente qualsiasi autocelebrazione (per quanto giustificata possa essere), ma che non ha soddisfatto del tutto la mia curiosità, visto che avrei voluto sapere quali tra le tante produzioni andate in scena in questi 14 anni riteneva più riuscite o più importanti sotto gli aspetti storico e artistico, soprattutto visto che all’inizio aveva dovuto confrontarsi con quanto fatto da René Jacobs. «Beh, la lista sarebbe lunga e indicando qualche allestimento avrei il timore di fare torto ad altri. In linea generale, sono convinto che gli esperimenti che abbiamo fatto inoltrandoci nel repertorio del primo Ottocento siano stati quelli storicamente e filologicamente più interessanti. Di sicuro non è stato facile raccogliere l’eredità di una direzione artistica di alto livello come quella di Jacobs. Sono però convinto di aver fatto bene investendo in innovazione e qualità, e sono felice di consegnare ai miei successori un bellissimo festival, in perfetto stato di salute e con un afflusso invidiabile di pubblico».
Visto che abbiamo toccato l’argomento del futuro, non ho potuto esimermi dal chiedere cosa ritenga di aver lasciato a Ottavio Dantone, interprete di livello internazionale del nostro amato repertorio barocco. «Gli lascio senz'altro l’imbarazzo della scelta, perché nel Barocco ci sono ancora migliaia di tesori da scoprire e sono certo che avrà l’intelligenza e la maestria per portare avanti e migliorare il lavoro iniziato dai suoi predecessori».
In conclusione, non poteva mancare una domanda sui progetti futuri che li attendono dopo Innsbruck. «Credo che il Barocco farà sempre parte del mio repertorio, ma in questo momento il mercato mi sta orientando anche verso repertori differenti. Nel mio futuro ci sarà sicuramente molto Belcanto, molto Rossini e probabilmente continuerò altrove quel lavoro di riscoperta di capolavori inediti che ho iniziato a Innsbruck».
Le immagini di questo articolo sono di Sandra Hastenteufel, che ringraziamo sentitamente.
© 2023 CIVICO20NEWS - riproduzione riservata
Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini
Articolo pubblicato il 06/11/2023