Le riaperture di Giuseppi? Per le imprese peggio del lockdown. Di Claudia Passa

Verso il fallimento e oltre, la Grecia non è lontana.

Madamina, il catalogo è noto. Non delle conquiste di don Giuseppi e dei suoi gusti in materia femminile, ma – ahinoi – degli errori inanellati dal governo nella gestione dell’onda d’urto economica della pandemia.

 

Non stiamo dunque qui a deprimerci ricordandoli tutti. Limitiamoci a qualche dato fresco fresco: a due mesi dal lockdown, secondo l’Inps soltanto un lavoratore su cinque ha ricevuto la cassa integrazione in deroga di marzo, secondo le regioni addirittura uno ogni undici; dei prestiti garantiti tramite microcredito, le domande inoltrate dalle banche al 30 aprile sono state 45mila, a fronte di oltre cinque milioni di potenziali beneficiari; la “potenza di fuoco” del decreto liquidità si è rivelata la potenza di un peto, perché se accantonando un miliardo come garanzia pensi di mobilitarne 400, e in più non sgravi nemmeno le banche dalla perseguibilità penale per i prestiti erogati ad aziende che poi falliscono, o sei un pazzo o hai deciso di mandare il Paese all’asta.

 

In compenso il supercommissario Arcuri ha imposto il prezzo di Stato alle mascherine col risultato di renderle al tempo stesso obbligatorie e introvabili, il secondo partito di maggioranza ha proposto la parziale statalizzazione dei cda delle grandi imprese (roba che manco a Caracas), e nella Repubblica sovietica d’Italia continua a essere proibito andare nella propria seconda casa. Evviva.

 

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E mentre l’Italia, unico Paese occidentale, si chiama fuori dalla mobilitazione internazionale contro la Cina, anche sul fronte sanitario gli interrogativi si intensificano. Innanzi tutto perché si sente fin troppo parlare del futuribile vaccino e dei suoi “padrini” potenti e ingombranti, e assai poco dello sviluppo di cure che negli ospedali sembrano produrre buoni risultati. In secondo luogo perché la notizia secondo la quale il virus sarebbe in circolazione già da ottobre, per il contagio diffuso a livello planetario in occasione dei mondiali militari tenutisi a Wuhan, dovrebbe consigliare un urgente screening di massa tramite le prove sierologiche, e invece anche su quel fronte tutto tace.

 

Eppure, a prescindere dall’efficacia o meno dell’immunizzazione, sapere quanti italiani sono entrati in contatto con il Covid-19 sarebbe importantissimo. Ogni malato in terapia intensiva è infatti un dramma, ogni vittima è una tragedia nazionale, ma il tasso di mortalità e la percentuale di terapie intensive avute sul totale dei contagiati sono dati scientifici. E se per governare razionalmente gli eventi c’è bisogno di dati scientifici che consentano di capire il comportamento del virus, il suo eventuale indebolimento e il tasso reale di offensività proporzionale, per conoscere il risultato di una frazione servono sia il numeratore che il denominatore. Cosa aspettiamo? Mistero della fede.

 

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Il guaio è che mentre Conte e i suoi (grandi) fratelli giocano a fare gli statisti, la crisi economica morde. Il numero dei suicidi cresce inesorabilmente, anche se nessun bollettino ne parla. Le file ai monti dei pegni si allungano. Ma, soprattutto, l’indicatore più allarmante sta nella preoccupazione che accompagna le aziende alle prese con il tema delle riaperture.

 

Già, perché quello che fino a qualche tempo fa sembrava un derby ideologico tra il partito della salute e quello dell’economia, per il ritardo e l’inadeguatezza con cui è stato affrontato sta diventando un dramma nazionale. Al punto che la lotteria delle date è ormai nulla più che un’arma di distrazione di massa sapientemente manovrata da una banda di parvenu trovatisi alla guida del Paese nel suo momento peggiore.

 

Prendiamo l’esempio dei bar. Dopo le lunghe settimane di lockdown, vederli aperti è una gioia per chi attraversa le strade delle nostre città. Ma un’attività non lavora a costo zero: corrente elettrica, personale, cibo deperibile che spesso resta invenduto, ecc. ecc. E guardandosi intorno la domanda nasce spontanea: quanto a lungo le spese saranno sostenibili vendendo un caffè alla volta, prelevato da un tavolinetto sull’uscio e portato via? E come potranno funzionare con modalità economicamente convenienti strutture ricettive e di ristorazione più articolate e complesse, con costi moltiplicati esponenzialmente?

 

Se la risposta è quella contenuta nelle anticipazioni pubblicate stamattina da diversi quotidiani, stiamo freschi. Al netto delle differenze fra le bozze messe in circolazione sui media, i “tecnici” avrebbero partorito protocolli di sicurezza che, per restare all’esempio dei ristoranti, secondo il “Corriere della Sera” imporrebbero addirittura la distanza di due metri fra ogni singolo avventore e di quattro fra un tavolo e l’altro. Sicché è una proiezione fin troppo ottimistica immaginare che due saracinesche su tre resteranno abbassate.

 

Il ritardo, l’inadeguatezza, l’inaffidabilità fin qui dimostrata, la presunzione di poter fare a meno di un confronto con chi conosce sul campo le problematiche concrete dei diversi settori, finanche la tracotanza con la quale il governo ha negato qualsiasi sostanziale coinvolgimento di tutte le parti politiche, hanno trasformato l’ansia di riaprire nel terrore di avviarsi, riaprendo, verso un fallimento sanguinoso. Hanno tramutato il sano vitalismo del nostro tessuto imprenditoriale in una specie di cupio dissolvi. Del tutto comprensibile, di fronte alla fortissima sensazione di essere mandati al massacro pur di consentire a un esecutivo incapace, e a una pletora di “esperti” inutili se non dannosi, di scaricarsi la coscienza sulle spalle altrui.

 

E’ rimasto evidentemente inascoltato il grido d’allarme di Giuseppe Remuzzi, medico e fra i primi ricercatori italiani di livello mondiale, il quale ha ricordato come ogni anno povertà e conflitti sociali siano fra le prime cause di malattie e morte al mondo. Ma si è omesso anche di far di conto, perché se saltano i produttori di Pil, a stretto giro salta lo Stato.

 

La Grecia non è lontana. E la spirale perversa con destinazione default continuerà inesorabilmente ad avvitarsi se da un dibattito ormai strumentale e quasi “estetico” sul “quando” riaprire non si passerà a una discussione seria, già drammaticamente tardiva, sul “come” riaprire. Possibilmente lasciando da parte i virologi da salotto e le task force, e coinvolgendo in prima persona quegli eroi silenziosi che mandano avanti il nostro Paese e che oggi, mentre il resto del mondo si rimette in moto, sono stati messi di fronte alla drammatica alternativa tra lasciare chiusa l’attività frutto dei sacrifici di una vita e riaprirla con la prospettiva del fallimento.

 

Loccidentale.it

 

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Articolo pubblicato il 10/05/2020