L'avventurosa storia dell'apriscatole

Prima dell’affermazione, mezzo secolo in cui la gente era obbligata a usare qualunque strumento e attrezzo

È un po’ la questione se è nato prima l’uovo o la gallina… Questione quanto mai attuale parlando dell’apriscatole e delle scatole che doveva aprire: infatti, mentre sappiamo bene che l’apriscatole è nato un secolo fa, sulla data che segna l’apparizione nel mondo del cibo conservato in contenitori di metallo vi sono pareri discordanti. Un dato è certo, prima dell’affermazione dell’apriscatole, trascorse mezzo secolo in cui la gente era obbligata a usare qualunque strumento e attrezzo per cercare di liberare da quella schermatura metallica il contenuto che, nella prevalenza dei casi, era di carattere alimentare.

 

Infatti, superata la fase in cui i cibi erano conservati in bottiglie (ved. box), con l’affermazione, dal 1810 iniziò, della classica scatola di metallo, per i consumatori di quei prodotti la vita divenne tutt’altro che facile: ognuno si ingegnava come poteva. Martelli e punte metalliche, con coltelli e anche accette erano sfruttati per infrangere quella corazza. Facile immaginare le scene: qualcosa di affine a Paperino o Willy Coyote sempre alle prese con l’apriscatole che si rompe proprio quando serve di più.

 

Nel 1858, lo statunitense Ezra Warner volle mettere fine alla sofferenza di tanti suoi simili e lanciò sul mercati una lama ricurva che consentiva di aprire la dannata scatola con un procedimento in fondo abbastanza naturale: un sistema che finalmente non imponeva sforzi disumani ai consumatori.

Quell’oggetto si chiamava Bayonet: un nome che non era certo un caso, visto che venne creato per facilitare le attività legate al rancio dell'esercito nordista impegnato nella guerra civile. A questo puntoci sarà qualcuno che sottolineerà il ruolo delle guerra nella creazione di innovazioni destinate a cambiarci la vita: su questo assunto si può discutere. Di certo l’apriscatole la vita è riuscito a cambiarcela.

 

I più giovani, straviziati dalla comodità dell’“apertura a strappo”, non riescono neppure a immaginare quale sforzo si doveva fare, fino a molto meno di mezzo secolo fa, per aprire una scatoletta. Termine, quest’ultimo, diventato sinonimo per acclamazione collettiva e destinato a indicare qualunque cibo in scatola: da quella piccolissima di tonno a quella di fagioli. Qualche variazione sul tema era concessa alle scatole più grandi, per esempio quelle di frutta sciroppata formato famiglia che venivano genericamente definite “latte”.

 

L’apriscatole, prima di elettrizzarsi ed entrare far parte della schiera degli elettrodomestici e diventare “indispensabile” praticamente solo nelle liste di nozze, ne ha fatta di strada. I primi, quelli costruiti sulla base del modello realizzato da Ezra Warner, sembravano attrezzi da scasso: oggetti che attualmente fanno parte dell’archeologia della cultura materiale.

I meno giovani ricorderanno quelli semplicissimi, spesso dati in omaggio nei negozi alimentari e che erano costituiti da un pezzetto di solido lamierino dotato di un artiglio laterale sempre di metallo e molto appuntito.

 

Consentiva un’apertura non sempre facile: comunque roba da adulti. Se qualcuno dei più piccoli voleva cimentarsi con quel micro strumento, doveva subirsi degli avvertimenti imperativi, del tipo “aprila sul lavandino!”… Infatti la fuoriuscita dell’olio del tonno era una consuetudine alla quale solo i più abili, e con molte scatolette alle spalle, riuscivano a sottrarsi.

 

Poi c’era l’apriscatole speciale per le scatole di sardine, aveva la forma di una chiave e operava in diagonale: un piccolo miracolo della micro-tecnologia che cessava di essere tale quando giungeva l’ora di recuperarla. Infatti, una volta, quando l’usa e getta non era ancora una consuetudine, quelle chiavette non si buttavano via con la scatoletta, ma si dovevano pazientemente svolgerle dal coperchio, unto e bisunto.

Ma erano tempi in cui era normale recuperare: le scatolette per esempio. Venivano accuratamente scoperchiate, limati i bordi taglienti e utilizzate per metterci chiodi e viti.

 

Quelle del caffè, le prime, se la memoria non ci inganna, ad avere l’apertura a strappo che lascia il perimetro interno della scatola perfettamente levigato, erano le più ambite: soprattutto perché, in tempi più recenti, sono state dotate di un funzionale tappo di plastica. “Salva aroma” e recuperabilissimo…

C’è stato anche il tempo dell’apriscatole saldato sotto le scatolette, in genere quelle di carne; quando serviva bastava tirare un po’ e la saldatura cedeva, così quella chiavetta microscopica poteva essere inserita nella linguetta di metallo che, seguendo il roteare della chiavetta, via via sollevava una striscia di latta intorno a tutta la scatoletta che a qual punto si apriva con facilità. In realtà era un’arma impropria: infatti era facilissimo tagliarsi, comunque anche lei ha fatto il suo tempo.

 

Difficile dire quale sia il modello più funzionale. Comunque, c’è chi è convinto che l’apriscatole abbia in sé qualcosa di malvagio: non sia amico dell’uomo, ma cerchi con ogni mezzo di rendergli difficile un’operazione che spesso è semplice solo in apparenza.

La sua cattiva nomea forse è anche dovuta al fatto che nei pic-nic riusciva sempre a farsi dimenticare a casa, costringendoci a mille trovate per “aprire il tonno”. E così, in tanti ci siamo sentiti un po’ Willy Coyote, mentre parenti e amici ci guardavano sconsolati nell’attesa di condire l’insalata…

 

 

BOX

 

Chi ha inventato il cibo in scatola?

Sull’origine del cibo in scatola non c’è accordo tra gli storici dell’alimentazione. Secondo le fonti più accreditate la paternità dovrebbe essere riconosciuta al francese Nicolas François Appert (1750-1841), che il 2 settembre 1802, iniziò un’attività mai vista prima di allora: la conservazione del cibo in appositi contenitori. In realtà non si trattava di scatole, bensì di bottiglie. La sua idea era semplice e, allora, senza controindicazioni. Infatti, nel piccolo stabilimento di Massy, il cibo cotto era stipato in bottiglie di vetro perfettamente sigillate e sterilizzate termicamente.

 

Forse anche in ragione dell’aspetto non proprio gradevole e soprattutto per la difficoltà di estrazione, la sua iniziative ebbe poco seguito. Per sette anni  Appert continuò la sue ricerche sulla conservazione degli alimenti: quando fu certo di essere sulla buona strada, ottenne una sovvenzione di 12.000 franchi dal Ministero degli Interni francese. Per quei tempi era una cifra straordinaria e Appert seppe farla fruttare: infatti la qualità dei suoi prodotti migliorò rapidamente. Sua anche la messa a punto della gelatina per schiarire le bevande fermentate e la stabilizzazione del vino mediante riscaldamento. Però non brevettò la sua invenzione! Nel 1810 Peter Durand, inglese, propose un metodo per conservare il cibo in latte di metallo. Nel 1811 il suo brevetto sarà usato da Dorkin e Hall che iniziano la produzione in scala industriale, diventando prima fornitori della Marina inglese e in seguito dell'esercito.

 

BOX

 

Francesco Cirio

Francesco Cirio (Torino 1836-Torino 1900). Dopo aver fatto tanti lavori e girato mezza Europa, nel 1856, acquistò un locale a Torino, in via Borgo Dora 34, alle spalle di Porta Palazzo, e vi costruì una caldaia per la cottura delle verdure. Iniziò con i piselli, per passare poi ai legumi, alla salatura delle carni, ma anche a prodotti di pregio, come funghi e tartufi. La sua diventò una azienda fiorente e aprì un negozio di generi gastronomici in via Palazzo di Città. Nel frattempo si era perfezionata la tecnica di produzione delle lattine per la conservazione degli alimenti, il che si rivelò un elemento importante per il successo delle sue attività. Cirio stipulò accordi con le compagnie ferroviarie italiane ed europee per il trasporto su carri refrigerati di derrate alimentari fresche, che potevano così essere “inscatolate” e commercializzate in tutto il mondo.

 

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Articolo pubblicato il 30/11/2020