L’Estremo capolavoro di Pergolesi
Giovanni Battista Pergolesi

Come accadde in seguito a Mozart con il Requiem, Giovanni Battista Pergolesi scrisse il suo capolavoro sacro nei suoi ultimi giorni di vita.

Nato nel 1710 a Jesi nella famiglia di un agronomo al servizio di un architetto militare, Giovanni Battista Pergolesi dimostrò fin dalla più tenera età una straordinaria propensione per la musica, che spinse alcuni esponenti della piccola nobiltà cittadina a farlo studiare con i migliori musicisti locali e poi – constatato il rapidissimo fiorire di un talento cristallino – a inviarlo a perfezionarsi a Napoli.

 

Giunto nella capitale partenopea, che proprio in quegli anni stava attraversando una delle fasi più felici della sua storia artistica e musicale, il giovane Pergolesi venne accolto nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, dove il prezioso insegnamento di Francesco Durante – suo insegnante di contrappunto – gli permise di affinare la sua arte, che ricevette il primo riconoscimento ufficiale nel 1731 con il dramma sacro La conversione di San Guglielmo d’Aquitania, il cui buon successo non trovò però conferma nella di poco posteriore Salustia, prima opera seria del compositore jesino.

 

Nonostante questo esito poco fortunato, Pergolesi si applicò con passione e intelligenza al genere teatrale, riportando nel 1732 un clamoroso successo con Lo frate ’nnamorato, che aprì all’appena ventiduenne compositore il mondo dell’opera buffa. Rappresentato in teatro ancora oggi, Lo frate ’nnamorato è caratterizzato da una scrittura teatralmente molto agile e briosa e da una meravigliosa vena melodica, con una trama che vede protagonisti personaggi popolareschi che, pur esprimendosi ancora in dialetto napoletano, sono ormai definitivamente emancipati dalle stucchevoli farse – non di rado di carattere licenzioso – che monopolizzavano i cartelloni dei teatri napoletano solo pochi anni prima.

 

Un altro aspetto che aveva colpito l’attenzione del pubblico partenopeo era la sua capacità di passare con estrema nonchalance dalla burla salace ai passaggi più patetici, nei quali si può talvolta ravvisare una premonizione della sofferta intensità espressiva dei grandi capolavori sacri scritti negli ultimi anni di vita.

 

La fama di Pergolesi trovò un’ulteriore conferma e la definitiva consacrazione nel 1733, quando al Teatro San Bartolomeo andò in scena Il prigionier superbo, che – tra un atto e l’atro – comprendeva l’intermezzo La serva padrona diventata, grazie alla sua verve e al suo spirito giocoso assolutamente esente da buffonerie gratuite, l’icona più rappresentativa dell’opera napoletana che si apprestava a conquistare i palcoscenici di tutta Europa.

 

Questo quadro felice venne però offuscato da problemi di salute sempre più gravi, che minarono la già malferma costituzione fisica del compositore jesino. Sperando di guarire da una tisi che ormai non gli lasciava più alcuna speranza, Pergolesi si ritirò nel convento dei cappuccini di Pozzuoli, dove si dedicò alla musica sacra fino al 16 marzo 1736, quando si spense all’età di appena ventisei anni.

 

Composto a partire dal 1734 e portato a termine poco prima della morte, lo Stabat Mater in fa minore rappresenta una della massime espressioni dell’arte sacra della prima metà del XVII secolo, esprimendo con straordinaria intensità l’animo dolente della sequenza latina tardo medievale – e, di riflesso, quello del compositore – in una forma musicale raffinatissima e scevra di qualsiasi orpello accademico.

 

Nonostante le ricerche e i contributi di numerosi studiosi di fama, la musicologia non è ancora riuscita a ricostruire la genesi dello Stabat Mater di Pergolesi, che rimane in questo modo avvolto da un’aura di mistero che non fa altro che aumentarne il fascino. Secondo la tesi prevalenti, il capolavoro sacro di Pergolesi sarebbe stato commissionato nel 1734 dall’Arciconfraternita della Beata Vergine dei Dolori, che in questo modo voleva sostituire con un’intonazione più moderna il celebre Stabat Mater di Alessandro Scarlatti, che veniva eseguito da ormai un ventennio – un lasso di tempo insolitamente lungo per l’epoca – tutti i venerdì di marzo nella Chiesa di San Luigi di Palazzo.

 

La devozione di Maria ai piedi della croce aveva trovato ulteriore linfa nel 1727, quando papa Benedetto XIII istituzionalizzò la Festa dei Sette Dolori di Maria Vergine, in seguito divenuta uno degli eventi più importanti del periodo quaresimale napoletano. Secondo altri studiosi – tra cui il compianto Francesco Degrada – prima dell’Arciconfraternita della Beata Vergine dei Dolori, lo Stabat Mater pergolesiano era stato richiesto dalla Congregazione de’ Musici, cui apparteneva lo stesso compositore jesino, che alcuni memorialisti dell’epoca definiscono religiosissimo.

 

Sotto il profilo stilistico, quest’opera incarna una religiosità decisamente proiettata verso il futuro, che con la sua vena melodica e la sua struttura fluida si contrapponeva alla compunzione un po’ rigida dello Stabat Mater di Scarlatti che si apprestava a sostituire, pur ricalcandone fedelmente l’organico.

 

Dopo una breve introduzione strumentale pervasa da una soffusa tristezza, che alcuni commentatori hanno voluto paragonare alla serena e rassegnata compostezza del Requiem composto da Mozart oltre mezzo secolo più tardi, il soprano e il contralto intessono un dialogo fitto e incalzante, le cui dissonanze contribuiscono a creare un’atmosfera di sottile drammaticità, che sfocia nella prima aria del soprano («Cujus animam»), sconvolgente raffigurazione musicale del desolato sconforto della Madre che vede suo Figlio appeso alla croce, porta e veicolo di salvezza dell’Umanità. In quest’aria Pergolesi riesce a evocare con insuperabile incisività l’immagine della spada che trafigge il cuore della Vergine preconizzata da Simeone (Lc 2, 35).

 

Questa espressione di dolore – nella quale Pergolesi accomuna tutto il genere umano – si stempera nel successivo duetto «O quam tristis et afflicta», nel quale il soprano e il contralto “elaborano” il lutto con trasognata compostezza, dalla quale – anche grazie alle sospirose figurazioni degli archi – sembra emergere il dolce fiore della speranza della redenzione.

Questa sensazione viene rafforzata dalla prima aria del contralto («Quae moerebat»), che passa con disinvoltura dal compianto del sol minore alla baldanzosa vitalità del mi bemolle maggiore sottolineata da una bella melodia dal ritmo sorprendentemente sincopato.

 

Dopo questa parentesi serena (ritenuta dai critici più severi incongrua con il carattere elevato e solenne dell’opera), Pergolesi ci riporta alla contemplazione di Maria ai piedi della Croce con il duetto «Quis est homo», il cui tono grave, vagamente melodrammatico e pregno di angosciosi interrogativi espressi dai ripetuti «Quis non possit contristari?», prosegue con l’aria del soprano «Vidit suum», la cui vibrante animosità si ricopre di tinte più cupe, spegnendosi in singulti sul «Dum emisit spiritum».

 

Questa perorazione viene proseguita dal contralto nell’aria «Eja Mater», con un’invocazione a Maria, definita con delicato lirismo «fons amoris». Con il duetto «Fac ut ardeat» la contemplazione dei dolori della Vergine lascia spazio a una sublime preghiera, che raggiunge il vertice nello sguardo devoto rivolto – non senza qualche dolorosa, umana esitazione – alle piaghe del Salvatore sulla Croce, prima di chiudere con il duetto «Quando corpus morietur», desolata presa di coscienza della fragilità umana sorretta dalla forza tanto sottile quanto invincibile della fede e sancito da un animoso Amen fugato, che pone il sigillo dell’eternità sulla parabola artistica e umana di Giovanni Battista Pergolesi.

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 25/08/2021