Innsbruck (Austria) Le Innsbrucker Festwochen, ossia il Paradiso della musica antica

Il festival austriaco ha deliziato ancora una volta gli amanti del Barocco con un’edizione imperniata dal direttore artistico Alessandro De Marchi su tre capolavori di Antonio Vivaldi.

 

Come tutti sanno, il melodramma ha avuto origine in Italia, per la precisione il 6 ottobre 1600, quando nei maestosi saloni di Palazzo Pitti venne messa in scena l’Euridice di Jacopo Peri su libretto di Ottavio Rinuccini, per celebrare le nozze di Maria de’ Medici con il re di Francia Enrico IV.

 

Anche se si tratta di una data convenzionale, non accettata da tutti gli studiosi (alcuni dei quali tendono ad anticipare la data di nascita dell’opera di qualche anno, in corrispondenza con la rappresentazione degli intermedii fiorentini), il capolavoro di Peri continua a essere considerato il precursore di un genere in cui l’Italia ha sempre fatto scuola, esportando con successo opere e compositori e dettando l’evoluzione del gusto.

 

Purtroppo, oggi nel nostro paese l’opera italiana del XVII e XVIII secolo gode di fortune altalenanti, che si basano soprattutto sulle coraggiose iniziative dei festival e dei teatri più lungimiranti, mentre le istituzioni più importanti continuano a privilegiare i collaudati titoli del grande repertorio, da Rossini a Verdi e dai romantici Donizetti e Bellini a Puccini e a qualche titolo verista, opere che presentano l’innegabile pregio di “fare cassetta” presso un pubblico dall’età media sempre più alta e in genere poco incline a confrontarsi con opere più impegnative.

 

Oltre che per questo, i lavori composti prima di Rossini – soprattutto le opere serie – fanno molta fatica a tornare alla ribalta soprattutto per gli alti costi legati agli allestimenti, che in un periodo di crisi e di spending review come quello che stiamo vivendo, rendono di fatto molto difficile rimettere in scena le opere di compositori come Antonio Cesti, Alessandro Scarlatti, Francesco Cavalli e Antonio Caldara – solo per citare quattro nomi a caso – che rischiano così di sprofondare malinconicamente nell’oblio.

 

Si tratta di un vero peccato, perché l’Italia può oggi contare su alcuni degli interpreti più autorevoli in questo campo, ammirati e osannati in tutto il mondo.

Tutto perduto, quindi?

Per fortuna no, visto che all’estero ci sono diversi festival che provvedono a tenere alta la bandiera dell’opera italiana, investendo risorse con intelligenza (vorrei sommessamente ricordare che il patrimonio culturale è una delle ricchezze principali del Bel Paese, ma questo – ahimé – è un discorso tanto noto quanto ignorato) e ottenendo in cambio risultati sorprendenti, tra cui sold out per opere del tutto inedite, che farebbero storcere il naso a quanti – e sono molti – fanno fatica ad andare oltre le solite Traviate e Bohème.

Uno di questi festival si tiene a Innsbruck, a pochi chilometri dai confini italiani – quindi facilissimo da raggiungere dal Brennero – ed è stato diretto fino a quest’anno dal nostro Alessandro De Marchi, che ha appena lasciato il testimone, dopo una permanenza durata ben 14 anni, a un’altra stella del panorama filologico italiano, ossia Ottavio Dantone, da anni direttore musicale della Accademia Bizantina di Ravenna.

 

A questo punto, qualcuno potrebbe tacciarmi di eccessivo sciovinismo, ma in realtà la storia delle Innsbrucker Festwochen der alten Musik – questo il nome completo della manifestazione – è un felice intreccio di artisti (in buona parte) italiani, una meticolosa organizzazione austriaca e l’incontenibile passione di un pubblico internazionale che fa registrare regolarmente il tutto esaurito anche quando vengono messe in scena opere molto impegnative come la dimenticata Idalma di Bernardo Pasquini riesumata nel 2021 oppure L’Olimpiade di Vivaldi di quest’anno, un capolavoro della durata quasi wagneriana di oltre quattro ore.

Per dare un’idea delle dimensioni delle Innsbrucker Festwochen basta dire che il cartellone del 2023 comprendeva tra l’11 luglio e il 29 agosto ben 56 appuntamenti (23 dei quali a ingresso libero), che hanno visto la presenza di oltre 20.000 appassionati di opera barocca, che sono venuti a trascorrere parte delle loro vacanze estive tra i ridenti paesaggi del Tirolo.

 

Pochi numeri, ma molto eloquenti, che testimoniano l’eterna giovinezza dell’opera barocca e fanno pensare che un trionfo del genere potrebbe essere replicato con successo anche alle nostre latitudini.

Ma torniamo ora alle Innsbrucker Festwochen, concentrando la nostra attenzione sulle tre opere di Vivaldi in programma, oltre alla citata Olimpiade, la poco nota Fida ninfa e l’oratorio militare Juditha triumphans. A queste opere facevano corona altre produzione di ampio respiro, come l’oratorio Rex Salomone di Tommaso Traetta eseguito dalla Theresia Orchestra diretta da un’autorità del Barocco europeo come Christophe Rousset, che avrebbe sicuramente la copertina in qualunque altro festival barocco.

 

Rappresentata per la prima volta nel 1734 nel Teatro Sant’Angelo di Venezia, L’Olimpiade si basa su un esemplare libretto scritto da Metastasio l’anno precedente, che in seguito sarebbe stato intonato da moltissimi altri autori, da Giovanni Battista Pergolesi a Leonardo Leo e da Baldassare Galuppi a Domenico Cimarosa.

Il regista Emanuele Sinisi ha trasposto l’azione ambientata dal Poeta Cesareo in una fiabesca antica Grecia nei Giochi Olimpici del 1936, per intenderci quelli che videro trionfare Jesse Owens di fronte a un furibondo Adolf Hitler.

 

L’azione si svolge in una palestra, nella quale i protagonisti vengono affiancati da sei atleti, che contribuiscono a conferire dinamismo all’azione con continui esercizi agli attrezzi ginnici. Il cast vedeva la presenza di tre assolute superstar del panorama barocco, che hanno fatto letteralmente a gara di virtuosismo, portando il pubblico all’entusiasmo, con vere e proprie ovazioni a scena aperta alla fine di molte arie.

 

Gli amici Licida e Megacle sono stati impersonati dai controtenori Behjun Mehta e Raffaele Pe, che si sono confermati tra i barocchisti più brillanti in circolazione sia sotto il profilo vocale, grazie a un’emissione naturale e sicurissima e a una tecnica del tutto irreprensibile, sia sotto l’aspetto squisitamente scenico.

Accanto a loro si è messo in grande evidenza l’eccezionale sopranista Bruno de Sà, che ha vestito i panni di Aminta sfoggiando un timbro morbido e perfettamente timbrato, che ha evocato in maniera sorprendente i fasti dei castrati del XVIII secolo.

 

Questo formidabile terzetto era affiancato dalla vibrante Aristea di Margherita Maria Sala, dalla composta Argene di Benedetta Mazzucato, mentre Christian Senn ha dato corpo a un umano Clistene e Luigi De Donato ha prestato la voce a un vigoroso Alcandro, con l’eccellente partecipazione del Coro Maghini, istruito come sempre da Claudio Chiavazza.

 

Da parte sua, Alessandro De Marchi si è confermato ancora una volta direttore di caratura assoluta nel repertorio vivaldiano, garantendo la giusta teatralità a un’opera complessa e di lunga durata (ben oltre tre ore di musica) come L’Olimpiade, guidando l’azione con polso sicuro e senza indulgere ai facili effetti da rock-barock che tanto piacciono al pubblico più superficiale, potendo contare su una brillante Innsbrucker Festwochenorchester. Alla fine, una tempesta di applausi per tutti dal folto pubblico che ha gremito in ogni ordine di posti il bellissimo Tiroler Landestheater.

 

Scritta due anni prima dell’Olimpiade, La fida ninfa è un dramma pastorale basato su un libretto per la verità alquanto farraginoso del celebre poeta Scipione Maffei, che – contrariamente alle opere di ispirazione arcadica dell’epoca – non narra una statica vicenda di amori non corrisposti e di intimi struggimenti dell’animo, ma offre allo spettatore una storia intricata – addirittura troppo – punteggiata di rapimenti, scambi di persone, equivoci, finte morti e tutto l’armamentario del teatro precedente alla riforma, fino a quando non arriva il provvido intervento di Giunone – protettrice dell’amore fedele – a salvare i due giovani protagonisti.

 

A consentire a questo guazzabuglio di situazioni di superare la prova del tempo è stata la musica di Vivaldi, che a più riprese raggiunge vertici di sublime bellezza.

Come si può immaginare, non è affatto facile eseguire un’opera del genere con un passo teatrale in linea con i gusti del pubblico moderno, ma la giovane e bravissima Chiara Cattani, alla testa del Barockorchester:Jung, eccellente formazione di strumenti originali composta da musicisti molto giovani, ha dimostrato di sapere dare la giusta agilità all’azione, in questo validamente affiancata dalla regia minimalista di François de Carpentries e dalle scene e dai costumi di Karine van Hercke, che hanno contribuito a focalizzare l’attenzione del pubblico sulla vicenda e a definire nitidamente il carattere dei personaggi.

 

Il fatto che il cast comprendesse cantanti molto giovani (compresi alcuni partecipanti al citato Premio Cesti) dimostra la assoluta bontà della scelta di dare fiducia a interpreti all’inizio della carriera, che compensano largamente una qualche carenza di esperienza con un entusiasmo molto coinvolgente e una grande attenzione ai dettagli.

 

Bisogna ricordarlo, il mondo appartiene – da sempre – ai giovani e a parere di chi scrive bisogna dar loro spazio appena pronti, come si faceva ai tempi d’oro della lirica, quando non si debuttava a 35 o più anni.

 

Tra tutti si è messa in particolare evidenza Chelsea Zurflüh, soprano svizzero che nei panni di Licori ha dimostrato di possedere una spiccata personalità e mezzi tecnici che le consentiranno di portare avanti una luminosa carriera.

 

Una citazione spetta anche ai due giovani controtenori, il ceco Vojt?ch Pelka e Nicolò Balducci, il primo in possesso di una eccellente tecnica virtuosistica, mentre il secondo si fa notare soprattutto per la bellezza vocale e doti interpretative fuori dal comune. Insomma, un Vivaldi forse (e dico forse) minore, ma veramente godibile.

 

La trilogia del Prete Rosso si è conclusa con la Juditha triumphans, che ha sancito di fatto la fine del mandato di direttore artistico di Alessandro De Marchi, con un vero trionfo sancito da oltre 10 minuti di applausi, roba che dalle nostre parti si vede – quando accade – nelle grandi produzioni dei teatri lirici.

Per questo, non me ne voglia nessuno, in questo caso la copertina spetta al direttore, che si è confermato acuto conoscitore dei raffinati meccanismi teatrali del compositore veneziano, un talento che aveva rivelano oltre un decennio fa con la nota registrazione dell’Orlando finto pazzo pubblicata dalla Opus 111 e considerata ancora oggi edizione di assoluto riferimento.

 

A differenza di altre produzioni della Juditha, effettuate in forma di concerto, nella Sala Grande del Tiroler Landestheater è stato presentato un incisivo allestimento scenico firmato dalla regista Elena Barbalich, con le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Tommaso Lagattolla e le luci di Fabio Barettin, che sottolineava il carattere fortemente drammatico della vicenda biblica, che vede l’eroina ebrea Giuditta uccidere il condottiero assiro Oloferne.

 

Oltre all’ovvio riferimento alla Giuditta caravaggesca, caratterizzata dagli stessi violenti contrasti di colore delle scene, questa lettura ha messo in risalto anche l’indomito coraggio di una donna determinata a salvare il proprio paese a rischio della propria vita, un tema che ha attraversato gran parte della storia dell’arte e continua ad avere una grande attualità.

 

Questa grandezza d’animo ha trovato conferma nella grandiosa interpretazione del mezzosoprano Sophie Rennert, che ha tratteggiato una Juditha estremamente credibile, da un lato pronta anche all’estremo sacrificio, ma capace di dispiegare le sue morbide arti seduttive con il brutale Holofernes impersonato da Anastasia Boldyreva.

 

Al loro fianco si sono messe in bella evidenza il mezzosoprano Emilie Renard nei panni di Abra, ancella di Juditha (quella che compare accanto alla protagonista nel quadro di Caravaggio) e il soprano Arianna Vendittelli nel ruolo di Vagaus, scherano di Oloferne, che si distingue alla fine nel toccante recitativo di fronte al cadavere del suo condottiero.

 

Anche in questo caso, il pubblico ha tributato a tutti gli interpreti una vera e propria ovazione, riservando un grazie particolare al direttore De Marchi, per questa magnifica interpretazione e – soprattutto – per 14 anni che hanno portato Innsbruck a essere una delle capitali più splendide della musica antica europea.

Se le Innsbrucker Festwochen continueranno il loro percorso con Dantone, ci auguriamo con tutto il cuore che De Marchi possa portare la sua esperienza e il suo entusiasmo – due qualità che potrebbero apparire antitetiche, ma non lo sono affatto – in qualche altra manifestazione, per diffondere ancora di più la sfolgorante bellezza del repertorio barocco, una ricchezza che possediamo in abbondanza, ma – pare – quasi senza saperlo.

 

Le immagini sono tutte opera di Birgit Gufler e provengono dal sito delle Innsbrucker Festwochen, che ringraziamo sentitamente.

 

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Articolo pubblicato il 23/09/2023