La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini

Via Mombasiglio 82: il covo dei «sette uomini d’oro» a Santa Rita

Il quartiere Santa Rita è sorto nella zona sud-ovest di Torino in tempi relativamente recenti, prendendo il suo nome dal Santuario dedicato a Santa Rita da Cascia, edificato in stile neoromanico medioevale tra il 1927 e il 1933 e consacrato nel 1957. Nelle carte ottocentesche questa zona di campagna è indicata come Tetti di Varrò, nome attribuito a un microscopico conglomerato di casette, posto in corrispondenza dello Stadio Olimpico Grande Torino. Le case popolari di via Tripoli 71 e 75 sono del 1908-1912, la Scuola Mazzini del 1913, le tre Caserme di piazza d’armi del 1908-1917, l’Ospedale Militare del 1913.

Santa Rita ha quindi una data di nascita molto più recente rispetto a quella di altri quartieri cittadini, ma questo non le impedisce di avere annali criminali ricchi di clamorosi episodi anche cruenti e atroci, come ad esempio quello del “Demonio a Santa Rita” (1988) e quello del “delitto del trapano”, avvenuto il 9 settembre 2003 in via Cadorna.

Oggi rievochiamo un episodio più lontano nel tempo, che concerne la via Mombasiglio al civico 82.

In un anonimo appartamento di questo stabile, nel 1964, abitava Albert Bergamelli, futuro boss dell’organizzazione criminale nota come “clan dei Marsigliesi”.

A Milano, sabato 15 aprile 1964, alle 16:30, Bergamelli mette in scena il “colpo del secolo”, che lo renderà celebre nelle cronache criminali. Quattro auto berline Giulia percorrono via Montenapoleone: la prima e l’ultima si vanno a scontrare contro due muri, bloccando il tratto di strada davanti alla gioielleria di Enzo Colombo.

In breve, il traffico imbottiglia del tutto via Montenapoleone, rendendo impossibile l’intervento delle forze dell’ordine. Il cuore di Milano diviene il set di un tragico film noir: sette uomini con maschere di nylon infilate sul volto, sparano raffiche di mitra all’impazzata.

I passanti, terrorizzati, si sdraiano a terra o si rifugiano nei portoni, mentre cinque rapinatori entrano nel negozio di gioielli, facendo saltare le teche a colpi di mitra. 350 milioni di lire: questo il bottino dei “sette uomini d’oro”, come li ribattezzano i giornali.

La Stampa, il 16 aprile 1964, li descriveva come «individui eccezionalmente spavaldi e preparati, guidati da una mente che sembrerebbe uscita dalla fantasia del più ardito scrittore di gialli».

Quella mente è Albert Bergamelli, nato a Vitry-sur-Seine, vicino a Parigi, nel 1939. Come il suo cognome suggerisce, è di origine italiana: i genitori sono emigrati in Francia, nel 1933, da Pradalunga, in Val Seriana, nella provincia di Bergamo.

Albert Bergamelli è evaso il 20 gennaio 1964 dal carcere di Melun, dove scontava quindici anni per l’assalto a una gioielleria.

Mentre la Questura milanese setaccia i bassifondi di Milano, il capo della Squadra Mobile di Torino, il dottor Antonio Maugeri, analizza le informazioni giunte dalla Gendarmerie francese. D’altronde, i bossoli di mitra sparati in via Montenapoleone erano di produzione francese. L’attenzione si focalizza su uno stabile in via Mombasiglio 82, a Santa Rita. Lo hanno affittato alcuni uomini che, secondo i vicini di casa, non si lasciano mai vedere: rientrano di notte, facendo rumore, verso le 3 o le 4 del mattino.

In quel palazzo Bergamelli e i suoi avevano allestito la loro base operativa. Maugeri può concentrarsi su questo stabile dalla facciata anonima grazie alla soffiata di un ricettatore turco, che confida alla Polizia di aver prestato la sua casa di Milano alla banda e di sapere che la base operativa dei “sette uomini d’oro” è a Torino, in zona Santa Rita.

Agenti in borghese vengono sparpagliati per tutto il quartiere: si teme che Bergamelli si sia trasferito o che non torni più nella sua base di via Mombasiglio. Invece, il 18 aprile, viene avvistato da un agente, mentre passeggia placidamente per Santa Rita. Maugeri organizza una cattura spettacolare. Bergamelli viene seguito fino a Porta Nuova: qui parcheggia la sua auto davanti alla stazione, armeggia con le chiavi per chiudere la portiera, ma si accorge di avere alle spalle il capo della Squadra Mobile soltanto quando questi gli intima di voltarsi lentamente, con le mani alzate, e di considerarsi in arresto.

Il venticinquenne Bergamelli mantiene la sua fama di vero «duro» che non ha mai confessato, neppure davanti a prove schiaccianti: anche con i poliziotti italiani mantiene quello sprezzante mutismo che in Francia gli ha fatto acquistare il soprannome di «bocca di pietra» o «labbra di pietra». Pare abbia detto soltanto «Se venivate a casa, facevo fuori tutti».

Tutti i “sette uomini d’oro” sono successivamente arrestati; il bottino, però, non viene mai ritrovato: qualcuno sostiene che è stato portato in Sudan.

Condannato per la rapina di via Montenapoleone, Bergamelli, evaso dal carcere di Alessandria, con altri francesi mette in piedi il Clan dei Marsigliesi, noto anche come la “banda delle tre B”, dal cognome dei tre principali esponenti: Bergamelli, Berenguer e Bellicini.

Operano tra Roma e il sud della Francia con rapine, sequestri, riciclaggio di denaro, spaccio di droga: i Marsigliesi non si lasciano sfuggire nessun traffico illecito purché redditizio.

Uno dei crimini più odiosi di questi criminali spietati avviene a Roma, il 21 febbraio 1975, quando, nel corso di una rapina all’ufficio postale di Piazza dei Caprettari, uccidono l’agente di Polizia Giuseppe Marchisella che è di scorta ai valori. Due giorni dopo, la giovane moglie del poliziotto, Clara Calabresi, sposata da appena venti giorni e in attesa di un figlio, si suicida.

L’opinione pubblica è fortemente scossa da questo episodio: emergono gravi inefficienze nell’organizzazione della Polizia: giovani agenti poco preparati sono mandati allo sbaraglio contro una criminalità sempre più arrogante, oppure vengono impiegati in umilianti servizi a favore dei loro superiori e dei «privilegiati dello Stato». Si chiede di costituire un sindacato per la Polizia.

Inoltre, Marchisella non aveva ancora raggiunto l’età regolamentare di 26 anni che permetteva ai poliziotti di sposarsi. Era legato a Clara Calabresi da un matrimonio di coscienza, dal valore soltanto religioso.

Sono polemiche giornalistiche che ricordo molto bene: le espressioni “Piazza dei Caprettari” e “Albert Bergamelli” sono rimaste nella mia mente, in collegamento all’infelice vicenda dell’agente Marchisella. Risale a quel periodo l’avvilente senso di sconforto per l’inadeguatezza e l’inefficienza degli apparati dello Stato che, purtroppo, nel prosieguo della mia vita non ho avuto occasione di rettificare.

La banda dei Marsigliesi, intanto, compie un salto di qualità operando sequestri di persona.

Fra il 1975 e il 1976 ne eseguono cinque, il primo è quello dell’imprenditore Amedeo Maria Ortolani, sequestrato il 10 giugno 1975, rilasciato dopo undici giorni di prigionia col pagamento di un riscatto di 800 milioni di Lire, eseguito dal padre.

Arrestato nel 1976 in un residence sulla via Aurelia, a Roma, Bergamelli muore nel carcere di Ascoli Piceno il 31 agosto 1982 ucciso da un altro detenuto, appartenente alla banda dei Genovesi.

Viene alla mente l’affermazione «I mulini del Signore macinano lentamente» che Agatha Christie attribuisce a uno dei personaggi del suo romanzo Il Natale di Poirot.

Non arriveremo alla blasfema affermazione che il Supremo Mugnaio, talvolta, è in ritardo sui lavori. Ma certo è avvilente e sconfortante constatare come per certi nefasti personaggi risulti più efficiente la “giustizia del carcere” rispetto a quella dello Stato!

 

Ringrazio Giorgio Enrico Cavallo per l’amichevole collaborazione (m.j.).

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Articolo pubblicato il 22/10/2023