Israele e Palestina - 1001 ragioni per stare al di fuori di un conflitto - parte prima (1/3)

Di Silvia Licata

La parte seconda sarà pubblicata in data di domani 27 Ottobre ore 9:00

La parte terza sarà pubblicata in data 28 Ottobre ore 9:00

 

Questo mese è appena uscito un nuovo film nelle sale cinematografiche mondiali: “Conflitto arabo-israeliano – ventitreesimo episodio”. Ventitreesimo ci sta, siamo nel 2023.

Ogni anno ha il suo conflitto, interno, esterno, sanitario, economico, climatico, digitale, non importa quale. Basta non perdersi neanche una puntata. Ma la mia speranza, che confido sia ben riposta, è che al botteghino risulti un autentico flop.

Ho deciso che io, le puntate le perderò tutte.

Noam Chomsky, grande teorico della comunicazione, nonché filosofo e linguista americano, Ashkenazim, inserirebbe sicuramente un sottotitolo a questo nuovo dramma bellico: “Nuove strategie di distrazione di massa”.

Ed ecco, quindi, spiegata almeno la prima ragione per cui è necessario stare al di fuori del conflitto arabo-israeliano.

In questo ventitreesimo episodio, i veri protagonisti non sono né i palestinesi né gli israeliani. Essi non sono che delle comparse, dei figuranti.

Come in ogni guerra, non contano le loro morti, ma in questo caso sono necessarie, perché devono riattivare l’animosità inutile e dannosa della gente di tutto il mondo, per sostenere l’una o l’altra parte, rioperando il divisionismo strategico degli antichi Romani, quella del “divide et impera”, ma anche quella, forse più moderna, del “recuperare convogliando”, ovvero riuscire a catturare il consenso e l’attenzione anche di chi ha sempre scelto di non far parte di nessun ovile e di ragionare e pensare senza farsi catturare da alcuna strategia di distrazione.

Necessità imperativa: raccogliere tutti i consensi, anche quelli di chi mai ha dato il permesso a entrare nella propria mente. In breve: manipolazione mentale e mediatica.

Da qui, la teoria principale di Chomsky si snoda e arriva il bello: dopo avere riacceso i dibattiti nel frattempo spenti dopo le macerie ucraine, e avere rioperato il divisionismo, la gente viene ancora una volta catapultata in una nuova finta realtà “cinematografica” in cui ognuno perde di vista qualsiasi altra cosa, dimenticando le vere urgenze da affrontare, che vanno dalle questioni del mondo lavorativo, alla sanità, all’economia, alla mobilità urbana, alla circolazione del denaro e a uno dei beni più preziosi della vita dell’essere umano: il libero arbitrio, da cui dipende la nostra libertà. 

Un’altra ragione per cui è bene porsi al di fuori di questo conflitto è che, come avrebbe detto lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez, non è che l’ennesima “cronaca di una morte annunciata”.

I territori della Mezzaluna Fertile sono una polveriera pronta a esplodere da sempre, come si è visto negli anni passati, ma come si sta vedendo anche in questi giorni. Ciò che fa la differenza tra i tempi passati e la nuova congiuntura è che in precedenza, seppur zona strategica, non era che uno dei punti caldi del pianeta; adesso, invece, oltre a essere un potente mezzo di distrazione di masse, è anche un modo per continuare a ordire ancora meglio la trama dell’orrore a livello mondiale.

Pensare che tutto ciò sia realmente o soltanto una questione religiosa e/o territoriale tra due popolazioni significa essere fuori strada.

Iniziamo quindi con il dire che è improprio parlarne menzionando la parola “Stato” sia in merito a Israele che in merito a “Palestina”, per puntualizzare chi sia arrivato prima e chi abbia diritto alla sovranità di quei territori.

Entrambe le due entità hanno acquistato l’identità di “Stato” in epoca contemporanea, Israele nel 1948, la Palestina nel 1988, ma è necessario risalire all’antichità per riuscire a comprendere la situazione e definire realmente ciò che sia Israele e ciò che sia Palestina.

Quando si sente dire “Israele” è naturale e istintivo collegare questo nome agli ebrei. Tuttavia, siamo sicuri che sia corretto? E, qualora lo fosse, chi sono realmente gli ebrei?

Non è possibile, in effetti, creare una corrispondenza univoca tra ciò che è israeliano e ciò che è ebraico.

Partendo dal presupposto importante che “ebraico” significa “che professa l’ebraismo”, che è una fede religiosa, “israeliano” non significa essere dunque “ebreo”, poiché all’interno del territorio menzionato vi sono anche, ma non solo, musulmani e cattolici, che sono le altre due fedi preponderanti nel Paese, benché in percentuali minori.

Del resto Gerusalemme, la capitale di Israele, non a caso è la “Città Santa”.

A dispetto delle guerre fratricide che la vedono coinvolta, è comunque “santa”, per le tre maggiori confessioni religiose presenti in Israele: ebraismo, islam e cattolicesimo.

Quindi, è corretto asserire che “essere israeliano” non significa necessariamente “essere ebreo” e che si è israeliani nel momento in cui si è cittadini israeliani, indipendentemente dalla propria religione. 

Stabilito dunque questo primo grande concetto, il termine “ebreo” viene associato anche all’appartenenza etnica, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, ma anche perché, in fondo, pur abiurando la fede ebraica e convertendosi ad altre religioni o abbracciando l’ateismo, si resta ebrei per sempre. Ed è ciò che, per esempio, non succede nel mondo islamico o in quello cristiano.

Chi sono dunque gli ebrei?

Siamo al Bereshit, cioè all’inizio biblico. Al Bereshit, secondo la tradizione religiosa ebraica, gli ebrei discendono dai tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe.

Si trattava di tribù abitanti l’antica Giudea, corrispondente all’attuale Stato di Israele e a parte dello Stato palestinese.

Dal punto di vista linguistico, si scoprì attraverso un’indagine filologica che gli ebrei sono una popolazione semita.

Infatti, nel 1787, il filologo tedesco Johann Gottfried Eichhorn fu il primo a coniare il termine “semita” per designare non soltanto gli Ebrei, ma anche tutte quelle popolazioni che parlavano lingue simili all’ebraico, come gli Arabi, gli Assiri, gli Aramei e i Fenici.

E ciò, già stupisce, perché si vedrebbe il termine “semita” riferito non solo agli Ebrei, come si vorrebbe secondo la tradizione contemporanea.

Lo stesso Eichhorn disse che tutti questi popoli sono semiti in quanto tutti discendenti di Sem, figlio del patriarca Noè.

Questa scoperta fu poi sostenuta anche dai successivi studi genetici: il DNA di tali popolazioni ha caratteristiche identiche e, in particolare, il cromosoma Y dimostra come siano imparentate tra di loro.

Dal punto di vista religioso, gli Ebrei non presentavano uniformità e, come l’autore ebreo Tito Flavio Giuseppe, vissuto sotto l’imperatore Vespasiano, affermò, erano suddivisi in quattro gruppi: Farisei, Sadducei, Esseni e Zeloti.

Possiamo quindi certamente affermare che non erano particolarmente omogenei e che proprio tale caratteristica è ciò che si è continuato a osservare lungo i secoli, arrivando fino ai giorni nostri, soprattutto nella misura in cui questa popolazione fu soggetta a varie diaspore o migrazioni, sin dai tempi più antichi.

La prima diaspora, infatti, si ebbe già a partire dal VIII a.C., prima sotto il regno babilonese e successivamente sotto l’Impero Romano.

A quel tempo, gli Ebrei si mossero sia verso est, raggiungendo Cina e India, che verso ovest, arrivando in Europa.

In ogni caso, fu così che iniziarono a creare nuovi gruppi religiosi con caratteristiche diverse tra loro.

Dalla prima grande diaspora, gli Ebrei migrati in Estremo Oriente diedero nascita al gruppo Malabar o Kochin in India e a quello Kaifeng in Cina.

A Occidente, secondo il pensiero tradizionale, che poi si smentirà, invece crearono i gruppi Italkim, Sefardim e Ashkenazim.

Gli Italkim, ovvero gli ebrei italiani, sono un gruppo abbastanza composito, sicuramente in ragione della posizione geografica dell’Italia. In realtà, la loro presenza qui viene attestata addirittura ancor prima della diaspora, poiché gli Ebrei arrivarono nella penisola attirati dagli scambi commerciali.

In seguito vi furono passaggi di Ebrei dalla Francia che per la maggior parte diedero vita alla comunità ebraica piemontese, dalla Germania, e dalla penisola iberica.

I Sefardim si stabilirono in Spagna: il loro nome deriva dall’ebraico “Sefarad”, che significa Spagna, dove risedettero fino a che i cattolici sovrani spagnoli nel 1492 li espulsero ed essi si rifugiarono in vari Paesi dell’area Mediterranea, tra cui l’Italia.

Allo stato attuale, i Sefardim costituiscono un gruppo molto numeroso, essendo il secondo gruppo ebraico al mondo con circa 3 milioni di persone.

Bisognerebbe, tuttavia, tenere in considerazione anche i “Marranos”, ovvero i “Marrani”, cioè molti dei Sefardim che, per sfuggire alle persecuzioni, accettarono di convertirsi al Cristianesimo, abiurando la fede ebraica, oppure fecero finta di abiurarla, continuando a professarla di nascosto.

I discendenti dei Marranos quindi, oggi, potrebbero non sapere di essere in realtà Sefardim.

Gli Ashkenazim, secondo la tradizione, devono il loro nome al fatto di essersi stabiliti in Germania dove scorre il Reno. Si dice che il loro nome significhi per l’appunto “valle del Reno”, informazione non corretta.

Attualmente costituiscono il gruppo più numeroso al mondo, poiché ve ne sono in totale circa 12 milioni.

Si dice si sarebbero formati dalla diaspora ebraica, esattamente come i Sefardim, ma dal punto di vista linguistico e genetico vi sono troppi elementi discordanti.

Inoltre, non si riesce a spiegare l’elemento slavo, ossia dei Paesi dell’Europa orientale, all’interno di tale gruppo.

Nel tempo, si sono affacciate nuove ipotesi significative sulla vera origine degli Ashkenazim.

 

Silvia Licata (1974), laureata in lingue e letterature straniere con indirizzo filologico, vanta un curriculum di tutto rispetto non solo per l’ampiezza delle materie approfondite, ma soprattutto per la “policromia” degli interessi. Oltre a un italiano preciso e accurato parla correntemente inglese, francese, spagnolo, tedesco e russo. L’articolo scritto per Civico20news ne è prova lampante.

   

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Articolo pubblicato il 26/10/2023